La metamorfosi della condivisione

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La metamorfosi della condivisione

L'economia collaborativa è già lontana anni luce dalle sue origini romantiche, quando gli autisti di Lyft offrivano davvero "un passaggio sull'auto di un amico". Ha perso l’anima della condivisione.

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L’economia collaborativa è già lontana anni luce dalle sue origini romantiche, quando gli autisti di Lyft offrivano davvero “un passaggio sull’auto di un amico”. Ha perso l’anima della condivisione.

​C’era una volta chi cercando un alloggio con AirBnb finiva su un materasso gonfiabile nella stanza degli ospiti. Oggi AirBnb è diventato un canale come un altro per l’affitto facile di case vuote, spesso gestite da un agente immobiliare, e si cominciano a vedere casi in cui le grandi corporation cercano di fermare la concorrenza ingoiando una start-up, com’è successo a Zipcar, recentemente acquisita da Avis, oppure a Spin, la società di scooter-sharing comprata da Ford. Jeremiah Owyang, fondatore di Catalyst Companies e acuto analista di questo settore, rileva che ormai il grosso della sharing economy è nelle mani dell’1 per cento più ricco degli imprenditori della Silicon Valley. Dalle speranze del comunismo digitale, quindi, rischia di nascere un feudalesimo digitale.

Esiste ancora, però, chi si pone il problema della compatibilità fra condivisione e capitalismo. Antonin Léonard, fondatore del think-tank parigino Ouishare, ha piazzato il problema al centro di un suo recente intervento, intitolato “Lost in Transition?” con evidente riferimento all’anima collaborativa del movimento, che si va perdendo. «È chiaro che vorremmo vedere più progresso sociale e più uguaglianza nel mondo e ci domandiamo in che misura l’economia collaborativa possa contribuire a farci procedere in questa direzione», spiega Léonard, rilevando la crescente divaricazione nell’universo della sharing economy, fra chi continua a gravitare attorno agli scambi collaborativi e chi è ormai lanciato nella scalata alle quotazioni di Borsa, come Uber, che dovrebbe sbarcare a Wall Street quest’anno.

I casi di matrimoni riusciti fra condivisione e capitalismo sono sempre più rari, ma un esempio positivo indicato da Léonard è BlaBlaCar, leader mondiale del car-pooling, con 35 milioni di iscritti in 22 Paesi del mondo e 400 milioni di dollari raccolti negli ultimi tre anni. «Abbiamo identificato un’esigenza diffusa: quella di trovare con facilità un passaggio in macchina, soprattutto nelle aree dove mancano collegamenti ferroviari efficaci. Il concetto del car-pooling è molto diffuso negli Stati Uniti, dov’è utilizzato regolarmente dai vicini di casa, che condividono ogni giorno il tragitto in macchina per andare in ufficio o per portare i figli a scuola. In Europa è un sistema ancora poco conosciuto, ma con la nostra app sta diventando più diffuso», spiega il fondatore Frédéric Mazzella, considerato un enfant prodige della digital economy francese, nel nuovo quartier generale della società, che si è appena installata accanto a Facebook, in un palazzo prestigioso di fronte alla Borsa di Parigi.

Il servizio funziona proprio come un passaggio, potenziato dalla tecnologia. Chi ha la macchina e la usa spesso per spostarsi su itinerari mediamente lunghi si registra e offre i posti liberi su BlaBlaCar. Chi ha bisogno di un passaggio indica il tragitto che gli serve e manda una richiesta al guidatore che lo copre. Il concetto è condividere le spese di viaggio, non lucrare sui posti macchina, perciò i prezzi vengono fissati all’interno di un limite prefissato abbastanza ristretto. Conducenti e passeggeri devono compilare un profilo personale, dove si leggono i giudizi dei compagni di viaggio precedenti. Proprio da questo profilo viene il nome di BlaBlaCar. Fra le caratteristiche da inserire c’è anche quanto uno è chiacchierone: i più riservati sono targati Bla, i più espansivi BlaBlaBla. «All’inizio nessuno ci credeva, invece il pubblico ha risposto: sempre più gente è stanca di mantenere un’auto tutto l’anno per farla stare ferma la maggior parte del tempo, ma occasionalmente ha l’esigenza di spostarsi su tragitti poco serviti dalle ferrovie e preferisce cercarsi un passaggio», precisa Manzella. E BlaBlaCar cosa ci guadagna? «Una percentuale del prezzo del viaggio, che varia a seconda dei Paesi del mondo. In Francia è il 12%, ma in altri mercati, dove siamo appena arrivati, offriamo anche il servizio gratis».

Un altro grande mercato dove la sharing economy sta crescendo molto è quello dei servizi professionali. Collaboratori on-demand, che producono programmi, grafica o contenuti pubblicitari, si trovano con un click su piattaforme come Upwork e FreelancerTongal mette a disposizione dei clienti il suo network di 40mila produttori di video e Axiom i suoi 1500 avvocati. Eden McCallum, fondata a Londra nel 2000, offre servizi di consulenza on-demand pescando nel suo network di 500 esperti. Il Business Talent Group, basato a Los Angeles, offre persino top manager on-demand, per affrontare problemi specifici senza doverne assumere uno in pianta stabile. Le piattaforme di creativi aggiungono altre modalità, come le aste per premiare un’idea vincente. InnoCentive ha applicato questo sistema alla ricerca e sviluppo, trasformando le necessità delle aziende in domande specifiche e premiando la risposta migliore.

Solo cinque anni fa, era difficile immaginare la fioritura di un mercato definito dai servizi on-demand. Ora questo mercato è maturo e produce ricchezza, oltre che posti di lavoro. Negli ultimi cinque anni, l’economia on-demand ha messo a lavorare oltre 3 milioni di persone solo negli Usa, il che rappresenta il 20 per cento della forza lavoro americana e il 38 per cento dei nuovi posti di lavoro a stelle e strisce. La crescente diffusione e potenza degli smartphone facilita a tal punto i contatti diretti fra clienti e lavoratori, da rendere le piattaforme online di smistamento degli ordini quasi più pratiche degli aggregatori di lavoro tradizionali, cioè le aziende. Le conseguenze sono vaste e tutte piuttosto spiacevoli per gli operatori tradizionali nei settori dove si affaccia questa nuova sharing economy, dagli studi di avvocati ai colossi della pubblicità, passando per i templi della consulenza come McKinsey.

Quali sono, invece, le conseguenze per i lavoratori? Qui i pareri si dividono. C’è chi considera questo modo di lavorare una forma di sfruttamento inaccettabile. Parlando con chi ha scelto di starci, però, questo mondo non sembra poi così nero. «L’aspetto più attraente per me è la flessibilità e il fatto che non devo rispondere a un capo: dal cellulare mi arrivano proposte di lavoro che posso accettare o respingere, sono io che decido», spiega Sara, una videomaker per Tongal. Stesso discorso per Alberto, che ha trasformato casa sua in un ristorante improvvisato con EatWith, a Barcellona. La libertà di scelta e il controllo del proprio tempo sembrano centrali, per chi conduce questo stile di vita. In più, c’è la netta sensazione di essere premiati se si lavora bene. I rapporti che si instaurano con i clienti soddisfatti possono diventare molto remunerativi. E Tongal ha addirittura creato dei premi annuali, i Tongies, che a Hollywood stanno diventando importante quasi come gli Oscar.

Non mancano poi le sacche di resistenza a una visione super-competitiva del lavoro, incentrate soprattutto su piattaforme no profit, come l’inglese Echo (Economy of Hours), leader fra le banche del tempo, come la rete di ospitalità francese BeWelcome o il Banco Alimentare italianoZopa, insieme ad altri siti di prestiti peer-to-peer, appartiene a questa categoria. Poi ci sono i servizi pubblici in comune, come il bike-sharing milanese BikeMi o quello parigino Velib’, e crescono i network basati sugli scambi di beni che il proprietario non vuole più, come Freecycle. La condivisione delle idee e dei progetti prospera in format collaborativi come BarCamp o FooCamp e l’istruzione peer-to-peer nelle classi virtuali di Skillshare e Instructables. Fon mette in comune le connessioni WiFi e Mosaic democratizza il fotovoltaico, consentendo a chiunque di investire pochi dollari in cambio di energia pulita.

È un paesaggio più frammentato, che non attira investimenti miliardari e non fa botti a Wall Street, ma cresce e si sviluppa rapidamente, di pari passo con le evoluzioni tecnologiche, che portano anche i senzatetto ad avere un cellulare in tasca. Al di là della tecnologia, è un movimento che si basa su una grande trasformazione sociale ed economica, oltre che culturale. Un numero crescente di persone vive vite meno strutturate, fa lavori meno garantiti e tende di più alla condivisione. Lo scetticismo nei confronti delle soluzioni calate dall’alto aumenta, mentre le piattaforme basate sulla condivisione ispirano quella fiducia che ci permette di ospitare un perfetto sconosciuto. E di condividere con lui le nostre conoscenze e i nostri progetti.

​Giornalista, scrive di temi economici, d'innovazione tecnologica, energia e ambiente per diverse testate, fra cui il Corriere della Sera, il Sole 24 Ore e il Quotidiano Nazionale. Invidia i colleghi che riescono a star dietro a Twitter.