Sri: il ritorno all’economia reale

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Sri: il ritorno all’economia reale

Il valore reale sottostante all’investimento è di nuovo l’elemento chiave da considerare. Il tempo delle mode è finito.

Il valore reale sottostante all’investimentoi è di nuovo l’elemento chiave da considerare. Il tempo delle mode è finito.

Si parla con sempre maggiore frequenza di finanza Sri (socially responsible investing). Nelle precedenti analisi su questo tema, è stato affrontato il particolare momento che vive la finanza mondiale e italiana, una fase in cui “tutti lo fanno Sri”, ovvero in cui è diventato un must prendere posizione sulla tematica. Per contro, si è affrontato il rischio che queste scelte nascondano un green, social o impact washing: ovvero, che siano scelte di opportunità, consistenti nel mettere vestiti nuovi a prodotti che non sono cambiati. Da qui, il moltiplicarsi dell’offerta, ma anche il moltiplicarsi di etichette e di riconoscimenti e certificazioni.

Al di là di tutto questo fumo, qual è l’arrosto? Cosa c’è, dunque, al termine della catena della finanza Sri (Socially responsible investing)?

IL RITORNO ALL’AZIENDA REALE

Per orientarsi in questo nuovo scenario, il mercato sta rapidamente prendendo coscienza dell’importanza di ritornare a considerare un fattore dimenticato da decenni e, forse, sottovalutato da sempre: il valore reale sottostante all’investimento.

Il messaggio arriva chiaro dall’Europa. In particolare, dal Final Report dell’High Level Expert Group sulla finanza sostenibile europea, presentato a fine gennaio, che è stato il momento ispiratore del successivo Action Plan di Bruxelles. Quest’ultimo, e le prime emanazioni legislative che ne sono seguite, si sono in seguito ridotte nella loro portata, concentrandosi, per ragioni di opportunità anche politica, su aspetti più operativi (la tassonomia di cosa è sostenibile) o ambiti più specifici (le informazioni green su cui fare trasparenza). Ma il Final Report, che resta una pietra direzionale del percorso, prevede una rivoluzione di trasparenza e conoscenza degli elementi Sri lungo tutta la filiera finanziaria, cioè a partire dall’investitore retail fino al grande fondo pensione, passando per analisti, gestori e case prodotto. Ebbene, al centro della conoscenza c’è un perno tangibile: l’azienda, intesa quale anello finale dell’investimento. In questo modo, si riscopre l’economia reale. Le imprese, l’attività economica concreta, quella che sposta i contatori della sostenibilità del mondo. Perché è qui, nell’impresa, che si gioca la partita.

UN MANUALE DI ENGAGEMENT

Quello che viene ipotizzato dall’Hleg, peraltro, non è soltanto una “riscoperta” monodirezionale (la finanza che valuta l’azienda). Bensì è l’instaurazione di un rapporto dinamico, di cambiamento reciproco tra finanza e azienda. L’intera settima raccomandazione del Final Report è una sorta di manuale dei nuovi rapporti tra “finanza” e “impresa” sugli Esg. Ossia, cosa l’investitore deve fare per spingere l’azienda verso una governance integrata della sostenibilità. Questo aspetto è cruciale per il percorso di piena integrazione tra Csr e finanza Sri. Da questo punto di vista, ciò che l’Hleg scrive (in termini di engagement, utilizzo dei diritti di voto, integrazione degli Esg nelle strategie aziendali; ma anche in termini di ruolo e responsabilità dei componenti del board e, specificatamente, degli indipendenti) deve essere considerato un manifesto, non solo per gli operatori della finanza, ma anche per i Cfo e i Csr manager aziendali.

SUPERATA LA REPORTISTICA

Come detto, l’Hleg ha messo le basi di un precorso dalle potenzialità travolgenti, che a livello politico-istituzionale (le normative di Bruxelles) avrà bisogno di tempi non certo brevi per compiersi. Ma, intanto, sono gli stessi operatori della finanza che hanno intuito il potenziale distintivo dell’interazione con l’azienda: per poter parlare davvero Sri, sarà necessario andare sul campo a mettere mani e naso negli affari dell’impresa.

Msci, ovvero il principale provider al mondo di rating Esg, nella sua anticipazione dei temi caldi del 2018, ha sollevato il velo sulla tematica della corporate disclosure. Msci ha spiegato come ci sia stata, e ancora ci si attenda quest’anno, una grande progressione delle informazioni sugli Esg messe a disposizione dalle aziende. Ma ha evidenziato anche come questo cominci ad avere impatti molto limitati sui giudizi Esg sull’azienda stessa. Innanzi tutto, spiega il provider americano citando un report 2017 di Pwc sugli investitori Usa, «il 62% ammette di non avere abbastanza fiducia sulle informazioni fornite dalle aziende» per incidere sulle proprie scelte di investimento.

Ma, soprattutto, la stessa Msci rivela che la voluntary Esg disclosure (report di sostenibilità e sito internet) dell’azienda contribuisce appena per il 35% alle informazioni che portano al rating Esg. Cui si aggiunge meno di un altro 20% legato alla mandatory disclosure (la comunicazione obbligatoria; Msci cita gli strumenti americani dei “financial filings and proxy statements“). Quasi il 50% delle informazioni arriva, di fatto, dalle situazioni reali che coinvolgono l’azienda (per esempio, dai data base sulle infrazioni o i procedimenti pubblici alle indagini delle ong; dalle ricerche universitarie; dalle inchieste giornalistiche).

È stato anche più diretto l’amministratore delegato di Blackrock, Laurence Fink, nella ormai pluricitata (non sempre a proposito) lettera ai ceo delle società in cui la “roccia nera” investe. Nella missiva di quest’anno non ha solo spostato in alto il livello delle richieste alle aziende, entrando nel piano “politico” del loro ruolo sociale. Ma ha anche spostato in alto il ruolo dell’investitore, spingendo più che mai sull’impegno del gestore (stewardship) a un engagement sui fattori Esg che non sia solo una tantum, ma continuativo nel lungo periodo. Impegno (questo dettaglio del pensiero di Fink va sottolineato) che cresce al crescere della “indicizzazione” della finanza. Come dire: posso fidarmi di un indice ed essere costretto a replicarlo, ma allora sono costretto ancor più a confrontarmi con l’azienda che sta in quell’indice, per far sì che si avvicini progressivamente a ciò che ritengo giusto.

In questa concezione del rapporto, Fink azzera ogni intermediazione tra finanza e azienda. La sua prospettiva è un confronto e un controllo diretto di ciò che l’azienda è nel concreto. E, infatti, nella sua lettera, non ci sono mai le parole “report” o “reporting”. Scomparse. Sparite. Come dire: l’azienda può raccontare ciò che vuole. Ma poiché è finito il tempo del fumo, è necessario aprire il forno e controllare sempre l’arrosto. 

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Nel 2011 ha fondato ETicaNews, quotidiano online, dove, assieme a un gruppo di colleghi sognatori, affronta argomenti che ancora non esistono su altri giornali. Tanto che, oggi, ET. è quasi un benchmark dell'economia sostenibilie e della finanza responsabile. Prima, è stato dieci anni in plancia per un quotidiano finanziario nazionale (Finanza e mercati) e direttore del mensile Top Legal. Sulla Milano della moda ha pubblicato "L'ultima sfilata" (Sperling & Kupfer), sulla Milano degli studi legali ha pubblicato “La legge degli affari” (Sperling & Kupfer).