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La Great Pacific Garbage Patch, la grande chiazza di rifiuti galleggianti di plastica è vasta cinque volte l’Italia. Negli oceani ne esistono altre 4 e pulirle è impossibile. La soluzione? Changes ne ha parlato con Stefano Aliani del Cnr.
La Great Pacific Garbage Patch, la grande chiazza di rifiuti galleggianti di plastica, è vasta cinque volte l’Italia. Negli oceani ne esistono altre 4 e pulirle è impossibile. La soluzione? Changes ne ha parlato con Stefano Aliani del Cnr.
Era il simbolo di un mondo in pieno fermento, nel quale il ricordo delle macerie della guerra era sì ancora vivido nella mente dei più ma la fiducia in un futuro di sviluppo e benessere permeava l’intera società. Ha rappresentato, inoltre, e lo rappresenta ancora, un esempio mirabile di collaborazione fra mondo della ricerca e produttivo e, come se non bastasse, motivo di orgoglio nazionale per un Paese che si avviava a diventare davvero industriale. La plastica come la conosciamo oggi, per chi non lo sapesse, è nata per merito di un italiano, un “tale” Giulio Natta che, tra l’altro, è l’unico connazionale ad aver ricevuto il Nobel per la Chimica, proprio in virtù delle sue scoperte che portarono alla realizzazione del polipropilene isotattico e del polietilene ad alta densità, messe in commercio dalla Montecatini.
Sono passati appena sessant’anni dall’avvio della produzione di quello che in gergo veniva chiamato Moplen, e molto più prosaicamente “materiale delle meraviglie” per la sua grande duttilità, quanto basta, però, per far declassare la plastica da risorsa a problema ambientale, in particolare per i nostri mari che ne ricevano ogni anno qualcosa come otto milioni di tonnellate. Una quantità enorme che se crescerà al ritmo attuale, secondo un studio condotto dal World Economic Forum in collaborazione con la fondazione Ellen MacArthur, potrebbe causare una vera e propria catastrofe naturale. Nel 2025, infatti, nelle acque del nostro pianeta ci potrebbero essere 1,1 tonnellate di materiale plastico contro tre di pesci ma appena 25 anni dopo, se non dovessimo riuscire a invertire il trend, si registrerebbe il sorpasso. Tradotto: in acqua ci sarà più plastica che pesci.
Numeri impressionanti quelli dello sversamento di plastica in mare ma da rivedere, probabilmente non al ribasso, come sostiene Stefano Aliani, ricercatore dell’Ismar-Cnr. «Tutte le stime fatte sono basate sull’estrapolazione di osservazioni locali su scala globale e questo porta a commettere degli errori». A prescindere dalle cifre, però, il problema è ormai sotto gli occhi di tutti, nel vero senso del termine. I rifiuti plastici, infatti, si stanno accumulando in determinate aree dei grandi oceani tanto che si parla di “isole”. «A dire il vero – spiega Aliani – è sbagliato utilizzare questo termine visto che in realtà non si sta parlando di territorio calpestabile. È invece più corretto utilizzare il termine garbage patch, ovvero macchie di spazzatura galleggiante che coincidono con aree ben identificate dove la circolazione oceanica crea degli accumuli di detriti, in corrispondenza di vortici permanenti che si formano in ogni emisfero intorno ai 30 gradi di latitudine».
Ne esistono cinque: Pacifico settentrionale, Pacifico meridionale, Atlantico settentrionale, Atlantico meridionale e Indiano, proprio in corrispondenza dei grandi vortici marini. Uno studio recente pubblicato qualche settimana fa dalla rivista Scientific Reports indica che sarebbe esteso oltre un milione e mezzo di chilometri quadrati e conterrebbe quasi 80mila tonnellate di rifiuti plastici. Un problema dal quale non è immune neanche il Mediterraneo, anche se in questo caso non esistono simili accumuli perché non si formano vortici permanenti in grado di ammassare localmente e in modo stabile simili densità di plastica. «D’altro canto – spiega lo scienziato del Cnr – è tutto il Mediterraneo a presentare una criticità preoccupante, non un’area specifica, anche se ovviamente si segnalano alte concentrazioni locali temporanee».
La plastica non è soltanto un problema ben visibile all’occhio umano ma rappresenta anche un nemico subdolo, invisibile, che entra nella catena alimentare con rischi che ancora la scienza non è in grado di quantificare completamente. In questo caso l’osservato speciale sono le microplastiche, ovvero quei minuscoli pezzettini di meno di cinque millimetri di dimensione frutto della degradazione dei rifiuti più grandi che spesso sono ingeriti dagli animali marini. «Uno studio recente ha messo in evidenza che le acciughe amano la microplastica perché per loro ha un buon sapore: sulla sua superficie, infatti, si forma un film di batteri che attira i banchi di questo pesce azzurro. Lo stomaco pieno di microplastiche – continua lo scienziato – blocca lo stimolo della fame e questi pesci finiscono per morire di fame pur avendo lo stomaco pieno». Il vero pericolo, però, è un altro: «Di per sé la maggior parte della plastica, soprattutto se di derivazione alimentare, è un materiale inerte che non produce avvelenamento immediato. Nel momento in cui la plastica dispersa nell’ambiente si aggrega con le sostanze velenose che trova lungo la strada verso l’oceano, diventa pericolosa in quanto queste sostanze possono essere veicolate nella catena alimentare ed in ultima analisi anche sulle nostre tavole».
Gli oggetti di plastica che abbiamo rilasciato in ambiente si sono pian piano frammentati e sono diventati microplastica, ma non finisce qui; la microplastica continua a frammentarsi in pezzi sempre più piccoli, fino pochi millesimi di millimetro diventando nanoplastica. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza dell’universo micrometrico, basti pensare che il diametro di un globulo rosso è circa 8 micrometri, quello di un capello varia tra i 65 e i 78 micrometri, mentre l’ovulo umano ha un diametro di circa 150 micrometri. Si sa veramente poco, se non quasi nulla, sulle nanoplastiche e sull’impatto che le plastiche delle dimensioni di pochi micrometri potrebbero avere sull’ambiente e sull’uomo.
Come è possibile invertire la tendenza? «Se noto che l’acqua della mia vasca da bagno ha superato il bordo e ormai sta cadendo sul pavimento – spiega Aliani – la prima cosa che faccio è quella di chiudere il rubinetto. Lo stesso ragionamento dovrebbe essere applicato al mondo della plastica che, ricordo, è una risorsa importante per la nostra società. Dobbiamo scommettere sull’economia circolare e creare percorsi virtuosi sia in termini di gestione dei rifiuti sia in quelli di produzione degli oggetti, perché ripulire il mare non basterebbe di certo. Il prodotto di plastica deve uscire dalla logica usa e getta e diventare parte di un percorso industriale che punti a riciclare e utilizzare più volte uno stesso oggetto aumentandone così in maniera determinante la resa. Quindi potremmo attivarci per pulire determinate aree in base alle tecnologie che abbiamo a disposizione e cercare di svilupparne di nuove. In sostanza non dobbiamo considerare la plastica cattiva tout court: al contrario dobbiamo compiere un salto mentale e istruire l’opinione pubblica in merito al fatto che un oggetto realizzato utilizzando questo materiale non è destinato ad essere usato per pochi secondo e poi diventa un rifiuto, ma può avere un valore. Ci siamo riusciti con il vetro e con il cartone dobbiamo farlo anche con la plastica: soltanto così risolveremo davvero il problema».