La diplomazia degli animali

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La diplomazia degli animali

Non solo accordi commerciali, relazioni bilaterali, ambasciate o eventi sportivi o culturali. Le relazioni con il con il mondo passano anche da panda e oranghi.

La diplomazia si può fare in molti modi: con gli accordi commerciali, con le relazioni bilaterali, attraverso ambasciatori o eventi sportivi, anche con la mediazione di artisti e fondazioni culturali. Tra i tanti modi con cui un paese può curare le proprie relazioni col resto del mondo c’è persino la natura. Gli animali, infatti, sono uno strumento estremamente efficace in questo senso. L’esempio più noto sono i panda.

Sin dai tempi della dinastia Tang, cioè attorno al 700 dopo Cristo, la Cina esporta i propri panda per motivi politici. Una tradizione diplomatica basata su due fatti noti: il primo è che i panda sono unicamente cinesi, e rappresentano quindi esclusivamente questa zona della terra e i suoi abitanti. Dei veri e propri “ambasciatori naturali”. Il secondo fatto noto è che i panda sono visivamente molto accattivanti: sono orsi, quindi animali grandi e possenti, allo stesso tempo però sono anche estremamente intelligenti e curiosi, oltre che molto teneri. E per questo è facile empatizzare con loro, coi loro comportamenti e con le loro movenze. Questi fatti erano validi secoli fa e lo sono ancora oggi: sui media cinesi le notizie sui panda sono frequenti e messe spesso in grande evidenza; e come sappiamo i film come Kung Fu Panda sono famosissimi e di grande successo.

Come funziona la diplomazia dei panda

La fase moderna della diplomazia dei panda risale almeno agli anni Settanta, quando ci fu l’episodio più celebre e di successo: due esemplari di panda furono spediti dalla Cina agli Stati Uniti come parte di un riavvicinamento tra i due paesi a seguito, tra le altre cose, di una visita del presidente Nixon a Pechino. Ma già vent’anni prima, nel 1941, negli Usa erano stati inviati due panda dal generalissimo Chiang Kai-shek.

L’idea alla base della diplomazia dei panda è sia di “premiare” i paesi amici, soprattutto in corrispondenza di accordi commerciali o politici (come successo con gli Stati Uniti), sia di consolidare amicizie già esistenti. Come quando Mao Zedong, all’inizio della Guerra fredda, regalò dei panda all’Unione sovietica e alla Corea del nord per rafforzare l’idea di un’alleanza tra paesi comunisti e repubbliche sovietiche.

Oggi i panda nel mondo sono in totale circa tremila. E se un tempo erano considerati una specie a rischio di estinzione oggi, anche grazie alla diplomazia cinese che li ha elevati a “brand naturale”, sono invece considerati animali a basso rischio e ben protetti. Per investire sul loro potere simbolico le autorità cinesi hanno infatti investito molto per studiarli e proteggerli, innanzitutto in patria ma anche all’estero. La comunicazione su questo ha aiutato, e anche i social network. Basti pensare alla nascita di un nuovo cucciolo in cattività (di per sé un evento raro e con un certo numero di possibili complicanze) che sarà di certo una notizia sia in Cina che in molte altre parti del mondo – Occidente compreso.

Per due terzi i panda nel mondo vivono in natura. Il restante terzo invece in cattività, quindi in zoo e altre strutture simili. Gli accordi che le autorità cinesi sottoscrivono con i paesi a cui vengono spediti gli esemplari sono dettagliati e, spesso, piuttosto rigidi: tra le clausole c’è che i nuovi nati devono essere rispediti in Cina, per esempio. Oppure che per ricevere i panda si debba disporre di strutture adeguate e di un alto grado di cura per gli animali. Non solo: la maggior parte dei panda “donati” dalla Cina ad altri paesi in tempi recenti sono spesso in realtà solo in prestito. Anche se si tratta di prestiti per lunghi periodi di tempo. Pechino, quindi, rimane il vero proprietario e primo gestore degli esemplari.

La Malesia si affida agli oranghi

Di recente anche la Malesia vorrebbe fare qualcosa di simile, ma con gli oranghi. Gli oranghi sono animali straordinari, molto simili a noi umani e intelligenti al punto da saper comunicare coi segni, saper costruire “letti” composti da rami su cui passare la notte e saper usare piante ed erbe specifiche per curare le proprie ferite. Il ministro dell’agricoltura e delle materie prime della Malesia ha annunciato l’iniziativa poche settimane fa: le grandi scimmie verranno mandate ai paesi amici. Ma scienziati e osservatori internazionali hanno subito fatto notare che l’idea è molto problematica.

Proprio come nel caso del panda cinese gli oranghi della Malesia sono animali rari, intelligenti e che meriterebbero di essere protetti. E proprio come nel caso del panda cinese anche l’orango che vive in Malesia (l’orango di Sumatra) vive esclusivamente in questa zona del mondo (l’areale è in parte in Malesia e in parte in Indonesia). Ma al contrario della Cina, che usa le donazioni dei panda da secoli e per ottenere benefici diplomatici di diversi tipi, l’Indonesia starebbe creando la propria diplomazia degli oranghi a un unico scopo: deviare l’attenzione dalle deforestazioni che stanno avvenendo sul proprio territorio.

Non è un caso che l’annuncio dell’inizio della diplomazia degli oranghi sia stato dato dalle autorità malesi subito dopo che l’Unione europea ha deciso di vietare le importazioni agricole provenienti da zone deforestate dopo il 2020. L’Unione ha preso questa decisione per cercare di scoraggiare ulteriori azioni di deforestazione. Quella europea è un’iniziativa di boicottaggio e di controllo del prodotto alla fonte, un’iniziativa lodevole, anche se non si può essere certi che sia sufficiente a sconfiggere il problema.

Ma torniamo agli oranghi. Quelli che vivono in Malesia sono una specie ad alto rischio di estinzione, e a parte il bracconaggio il grande pericolo per questi animali sono le coltivazioni di olio di palma che, in Malesia come in Indonesia, si allargano a discapito delle foreste dove queste grandi scimmie ominidi vivono. L’intento del governo malesiano sarebbe quindi molto diverso da quello della tradizione diplomatica cinese: non proteggere un proprio animale simbolo sia in patria sia all’estero, ma spedire alcuni esemplari (in questo caso di orango) come ricompensa ai Paesi che importano olio di palma o che non boicottano prodotti derivanti dalle deforestazioni.

Gli oranghi sarebbero quindi sì dei doni diplomatici, ma doni utili a coprire lo sfruttamento e la distruzione del loro stesso habitat. Di recente Stuart Pimm, professore di ecologia alla Duke University negli Stati Uniti, ha descritto la diplomazia degli oranghi come “ripugnante”, sottolineando che, a differenza dei panda giganti cinesi, gli oranghi non hanno delle aree protette nel paese da cui provengono. Tra i tanti modi di fare diplomazia sfruttando il grande potere simbolico e comunicativo degli animali ce ne sono alcuni di dubbia moralità. Con il rischio che lo sdegno della comunità scientifica, le proteste delle ong e di chiunque sia interessato alla conservazione animale renda fallimentari gli sforzi diplomatici stessi. Facendoli fallire.

Giornalista, ogni settimana scrive per Wired Italia “Non Scaldiamoci”, la newsletter sulle conseguenze politiche e sociali del riscaldamento globale e delle questioni ambientali. Si è occupato soprattutto di ambiente e politica estera, con un’attenzione particolare al continente africano, per varie testate. Tra queste Il Foglio, Wired Italia, Linkiesta, Rolling Stone, Repubblica ed Esquire Italia. Ha scritto reportage dall’Africa, dalla Norvegia, dall’Australia, dalla Polonia, dalla Francia e dal Parlamento europeo. È editor della rivista di saggistica e approfondimento culturale L'indiscreto e dal 2020 al 2022 ha insegnato all’Università degli Studi di Ferrara.