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Mentre in Italia la Sri (finalmente) l’argomento del giorno, comincia a profilarsi una sorta di seconda fase. Quella in cui ci si interroga sul reale livello di sostenibilità di una strategia o di un prodotto.
Mentre in Italia la Sri (finalmente) l’argomento del giorno, comincia a profilarsi una sorta di seconda fase. Quella in cui ci si interroga sul reale livello di sostenibilità di una strategia o di un prodotto.
Per il Socially responsible investment scatta l’esame “nel merito” di cosa sia davvero sostenibile o meno. E i risultati non sono sempre tranquillizzanti: si diffonde la sensazione che l’esuberanza dell’offerta Sri si leghi a una certa superficialità, se non, addirittura, all’opportunismo del cosiddetto greenwashing (ossia dipingere di “verde” ciò che verde non è, al fine di goderne gli effetti di immagine). Un segnale forte delle tensioni esistenti è arrivato lo scorso ottobre, quando l’Unpri, l’organismo delle Nazioni Unite che raccoglie i firmatari dei principles for responsible investment, ha annunciato una stretta alle condizioni di accesso. Ebbene, dopo essere passata attraverso critiche pesanti nei precedenti due anni, al punto da essere costretta a una sorta di auto-valutazione della propria struttura e del proprio funzionamento, l’organizzazione ha deciso di stringere le maglie. La sua managing director Fiona Reynolds ha anticipato, parlando a un convegno a Parigi, che sono almeno 200 i firmatari (su 1.800) che non si meritano di esserlo. E che questi, nel giro di due anni, potrebbero perdere lo status di sottoscrittore, bandiera che oggi sventola, effettivamente, come greenwashing.
Un messaggio è arrivato, nello stesso periodo, anche dal mondo del giornalismo. In questo caso, da Ignites Europe, un servizio informativo del Financial Times pensato per i professionisti, che è andato a pescare un’analisi costruita da Castlefield, advisor finanziario etico britannico, il quale ha fatto le pulci a tre fondi di investimento responsabile di tre colossi della gestione internazionale. La critica ha riguardato alcuni titoli contenuti nei fondi e ritenuti, per una ragione o per l’altra, border line. Ma la cosa più significativa non è il merito delle accuse, bensì il fatto che l’articolo rappresenta una prova di come i media anglosassoni abbiano fatto un passo oltre l’etichetta, e abbiano iniziato a interrogarsi sui “contenuti” della finanza Sri. Si tratta di un passaggio che spalanca la strada al concetto di inchiesta giornalistica Sri. E apre frontiere di rischio fino a oggi rimaste sommesse.
Del resto, è il mercato stesso a infondere timori in merito alla moltiplicazione delle “bandiere” sostenibili. Si pensi alla proliferazione, evidente nel corso del 2017, di budget e piani aziendali legati agli Sdgs, cioè ai sustainable development goals indicati dall’Onu a fine 2015. Sembra che questo acronimo sia diventato la formula magica per tutto e per tutti. Improvvisamente, nel giro di davvero pochi mesi, è come se fosse scattata la corsa a evidenziare ogni possibile connessione tra il proprio business e i famosissimi obiettivi. La domanda che rimbalza da manager a manager sembra essere: «Ce ne sarà pure uno, tra questi 17, che fa al caso nostro?». Evidentemente, sì. Tutti lo trovano. Ovvero: evidentemente, no. Non è possibile che tutti lo trovino veramente. Nel senso che appare improbabile che i business aziendali e finanziari siano stati ribilanciati in modo da servire il pianeta, in un lasso di tempo tanto breve. Appare più plausibile che le aziende abbiano semplicemente ri-misurato i risultati in una chiave differente.
E questa ri-misurazione rischia di fornire un escamotage su un piatto d’argento. Come dire: «Se misuro questo, e sono Sdgs compiant, allora sono a posto». A questo proposito, Wolfgang Pinner, responsabile Sri di Raiffeisen, al termine di un’ampia analisi condotta nel primo semestre 2017 presso le aziende partecipate, ha evidenziato che «si parla già di “Sdgs washing”». Ovvero, ha spiegato, «le imprese strombazzano ai quattro venti quello che piace loro degli Sdgs e della sostenibilità, ma in realtà non li prendono poi tanto sul serio»
Un messaggio simile è arrivato dall’edizione 2017 del Global Impact Investing Network (Giin), che delinea lo scenario generale degli investimenti a impatto. Il network ha disegnato un quadro positivo, di notevole crescita, ma caratterizzato anche da approcci molto diversi e da fenomeni che possono generare criticità.
In particolare, il Giin ha riportato la voce di alcuni soggetti che si chiedono quanto sia concreto il rischio di fenomeni di “impact-washing”: «L’etichetta impact è usata perché va di moda», ha risposto al questionario del Giin il manager di un fondo. E una fondazione ha notato: «È difficile dire quanto nuovo sia il denaro. Sono soldi frutto di una nuova strategia di investimento, oppure sono investimenti fatti in precedenza e ora brandizzati come impact o sostenibili?».
Insomma, sembra avviarsi una fisiologica seconda fase di selezione tra l’essere Sri e l’avere l’etichetta Sri. Del resto, è stata proprio la grande complessità che si nasconde dietro il concetto di “finanza responsabile” ad aver sinora lasciato ampio spazio di movimento a soggetti e prodotti quantomeno ibridi nella loro “eticità”. Attenzione, non è sempre e/o necessariamente una questione di malafede. Ma di progressiva moltiplicazione di opzioni per chi vuole imboccare la strada dello Sri.
Il fatto, ora, che si stia alzando l’asticella del merito, rende necessario ragionare sulla prospettiva di un mercato che saprà valutare correttamente il “merito Sri”. Da qui l’importanza di comprenderlo. Studiarlo. E metterlo in pratica senza curarsi delle mode passeggere.