Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
A sei mesi dalla COP26 possiamo – finalmente – tirare le somme di quello che avrebbe dovuto essere l’evento climatico del decennio, ma che alla fine ha lasciato l’amaro in bocca a tutti coloro che avevano grandi speranze.
Si potrebbe fare una tabella con i risultati positivi e quelli negativi, ma la situazione è molto più complessa di un semplice “è andata bene” o “è andata male”, e di certo non può essere riassunta frettolosamente in due scompartimenti stagni e opposti. È certamente vero che i risultati positivi per alcuni sono negativi per altri e viceversa: per l’India (e gli stati che l’hanno supportata), ad esempio, riuscire a cambiare “eliminazione del carbone” con “riduzione graduale” è stata una grande vittoria, che le permetterà di affrontare la questione della transizione ecologica e della decarbonizzazione con più agio in termini di tempo rispetto alla maggioranza degli altri stati in via di sviluppo. Per la coalizione delle piccole isole, invece, questa sostituzione è l’ennesima prova del fatto che i negoziati per il clima sono un gioco di forza e – fino ad oggi – a somma zero: quando qualcuno guadagna, ci sarà sempre qualcun altro che ci rimette. Le piccole isole del pacifico, infatti, mentre il mondo discute se i sacchetti di plastica compostabile vanno nel secco o nell’umido, pian piano perdono centimetri di costa, che diventeranno metri quando si raggiungerà un aumento della temperatura globale di 2°C.
Le conferenze in cui tutti vincono sono quelle in cui nessuno va a casa soddisfatto, perché ognuno è sceso a compromessi e non ha schiacciato l’altro. Di questo tipo, però, non ne abbiamo ancora viste. Ci sono sempre paesi che portano avanti le proprie politiche e visioni allo stremo, senza dare conto alle posizioni altrui, come se nella stanza negoziale ci fossero solo loro e il proprio riflesso: nessuna possibilità di mediazione o compromessi.
Tutti ci girano attorno, poi si avvicinano, poi ne parlano e poi… scompaiono. È questo l’effetto che fa la finanza climatica sui paesi industrializzati, che sono gli unici che potrebbero (e dovrebbero?) sostenere i costi della transizione ecologica. In generale, la finanza climatica fa riferimento all’insieme di finanziamenti – locali, nazionali o transnazionali, pubblici o privati – volti a sostenere azioni di mitigazione e adattamento per fare fronte ai cambiamenti climatici. Sebbene tale questione finanziaria ricorra nei negoziati internazionali sul clima in una forma o nell’altra dal 1992 (anno del Summit della Terra, la prima conferenza globale dei capi di Stato sull’ambiente e lo sviluppo), negli ultimi anni all’espressione “finanza climatica” si associa istantaneamente l’obiettivo – deciso alla Conferenza delle Parti svoltasi a Copenhagen nel 2009 – di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per supportare le economie non industrializzate a svilupparsi nel modo più sostenibile possibile. Tale obiettivo è poi rivisto negli accordi di Cancun (2010), dove è stato istituito il Green Climate Fund, ovvero un meccanismo finanziario che ha lo scopo di agire come meccanismo di erogazione dei fondi.
Questo obiettivo così ambizioso e che dava una parvenza di vera cooperazione internazionale per far sì che nessuno rimanesse indietro durante la transizione ecologica, però, non è mai stato raggiunto. Durante la COP26, a Glasgow, i rappresentanti dei paesi in via di sviluppo hanno rimarcato il mancato sostegno da parte delle economie sviluppate, e hanno fatto tremare le sedute delle plenarie chiedendo ai “grandi” del mondo di fare fede alle promesse prese ormai più di una decade fa. Se vogliamo leggere tra le righe, i messaggi che sono stati mandati durante le due settimane di Conferenza erano molto chiari: come si può chiedere a un paese la cui economia va avanti a carbone, di spegnere l’interruttore delle centrali inquinanti e passare alle energie rinnovabili dal giorno alla notte? O come si può aspettare che suddetto paese possa intraprendere un processo di transizione senza i fondi per farlo? I paesi industrializzati vogliono davvero elargire prestiti (e non concessioni) agli stati non industrializzati, dopo aver inquinato per più di un secolo, portandoci a dover negoziare letteralmente per rimanere a galla?
Nei giorni durante e dopo la COP26 sono stati molti gli stati che hanno rafforzato o stabilito nuovi finanziamenti internazionali per mitigazione e adattamento. Il Giappone, ad esempio, ha offerto 10 miliardi di dollari distribuiti sui prossimi cinque anni per ridurre le emissioni di gas serra in Asia. Austria e Norvegia hanno preso l’impegno di rispettivamente duplicare e triplicare i loro contributi volti all’adattamento, mentre gli Stati Uniti hanno annunciato la loro partecipazione agli impegni di finanza climatica con 11.4 miliardi di dollari all’anno entro il 2024.
Alla fine, dunque, qualcosa si muove: flussi di finanziamenti che permetteranno agli stati di implementare politiche di adattamento, mitigazione e resilienza in un mondo il cui clima cambia sempre più velocemente. Ma non abbiamo forse perso già troppo tempo?