Così è scomparso un mare

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Così è scomparso un mare

Il Lago d’Aral un tempo era il regno dei pescatori. Oggi è la prova concreta di come abbiamo modificato l’ecosistema e un esempio dei tentativi per riportare in vita un patrimonio naturale.

Abbiamo i dipinti di metà Ottocento che mostrano grandi velieri all’àncora su acque scure e profonde. E possiamo ammirare persino qualche vecchia foto delle navi di una parte della flotta imperiale russa che qui, sul Lago d’Aral, aveva alcuni dei suoi mezzi più importanti. Ma sono solo ricordi, perché il lago, invece, non c’è più. Poche storie raccontano la rapidità degli stravolgimenti ambientali del nostro periodo storico come questa. In qualche decennio un intero mare è scomparso. Il Lago d’Aral, infatti, era un mare vero e proprio, sia per la sua conformazione e dell’acqua salata che per le sue dimensioni: ben 68 mila chilometri quadrati, più o meno l’estensione dell’intera Irlanda.

Era il quarto specchio d’acqua più esteso al mondo. Com’è potuto succedere che il Lago d’Aral sia quasi del tutto scomparso? La risposta, purtroppo, è probabilmente la stessa che state immaginando mentre leggete queste righe: siamo stati noi umani.

Una lunga agonia

Il prosciugamento è cominciato durante la Guerra fredda, quando si decise di deviare i due grandi immissari Amu Darya e Syr Darya. I flussi d’acqua furono usati per trasformare parti di territorio semidesertico in estesissime piantagioni di cotone. Il governo sovietico, però, per dar vita a una produzione agricola finì per danneggiare in modo irreparabile le comunità di pescatori del grande lago. Non solo, la quantità di pesticidi usati per quelle stesse piantagioni di cotone fu tale che finì per avvelenare il territorio circostante, acque del lago comprese.

È stata una combinazione di fattori. Da una parte i veleni chimici e dall’altra l’acqua che non arrivava più dai grandi fiumi asiatici. Così il grande lago ha perso le decine di specie ittiche che lo abitavano; l’industria della pesca si è ridotta fino a scomparire e, infine, da questa zona hanno smesso di partire le tonnellate di pesce inscatolato che un tempo viaggiavano verso tutta l’Unione Sovietica.

C’è anche un terzo problema che si è aggiunto a peggiorare il tutto ed è il riscaldamento globale. Il Lago d’Aral si trova in un’area, tra il Kazakistan e l’Uzbekistan, in cui le temperature sono particolarmente estreme durante il corso dell’anno. D’inverno si possono raggiungere i venti gradi sotto lo zero e d’estate superare abbondantemente i trentacinque. Il che significa anche che un aumento della temperatura minimo, anche solo di pochi decimi di grado, può influire ulteriormente sull’evaporazione.

Di recente una troupe di giornalisti e fotografi dell’agenzia di stampa Associated Press è andata a vedere come si vive, oggi, attorno al Lago d’Aral. C’è chi un tempo faceva il pescatore, come il settantatreenne Ali Shadilov, e oggi racconta che solo pochi decenni fa si rideva dell’idea che il grande lago potesse davvero scomparire. Certo, c’era chi lo ipotizzava visti gli stravolgimenti del sistema idrico, ma davanti alla vastità di quasi 70 mila chilometri quadrati d’acqua la reazione comune era questa, sminuire, ridere, rispondere che quelle erano stupide fantasie, che per prosciugare un bacino simile ci sarebbero voluti milioni di anni.

Il tempo ha dimostrato altrimenti. E la disillusione da queste parti si è unita alla sorpresa e un certo sgomento diffuso. I pescatori hanno accettato di farsi fotografare di fianco alle grandi navi di metallo che oggi giacciono arrugginite sul fondale sabbioso. Nel farlo hanno deciso di indossare gli abiti tradizionali e ciò che usavano per il loro mestiere: comprese le tute di plastica impermeabile, gli stivali, i guanti e le reti da pesca. L’effetto nel vedere oggetti del genere in un luogo completamente desertico è piuttosto straniante.

Sul fondale di quello che era uno dei laghi più grandi al mondo oggi si può passeggiare, osservare le conchiglie, andare a piedi per chilometri e, affrontando qualche ripida salita, si può raggiungere la cima di quelle che un tempo erano delle isole e oggi sono solamente dei grandi colli sabbiosi. D’altronde nelle lingue delle popolazioni del posto il lago si chiamava proprio così “mare delle isole”, visto che erano oltre mille.

Il momento in cui tra le popolazioni del posto ci si rese conto che il lago stava rapidamente cambiando furono gli anni Sessanta. I bambini dalle loro classi di scuola vedevano ancora gli iceberg galleggiare e sciogliersi lentamente in primavera, ma l’acqua stava già diventando più salata e i pescatori lo notarono subito: significava che l’acqua aveva cominciato a diminuire. Nel giro di poco le navi più grandi già toccavano il fondale, diventando così inutilizzabili.

Timidi segnali di ripresa

Abbiamo perso un mare nel giro di pochi decenni. Dove si viaggiava in barca oggi si va in auto; i resort per la balneazione hanno chiuso e dove si pescava oggi si potrebbe pascolare il bestiame, se non fosse per i danni che i pesticidi hanno fatto alla flora locale.

Eppure, per il Lago d’Aral c’è anche qualche primo, timido, segnale di ripresa. Il governo kazako, per esempio, ha completato la costruzione della diga di Korakal, lunga dodici chilometri, che trattiene parte delle acque del Syr Darya proprio con l’obiettivo di far rivivere la parte settentrionale del lago. Il livello dell’acqua di questo rimasuglio di grande lago è cresciuto notevolmente, fino a superare i 30 metri.

È solo un primo passo, e i problemi da risolvere rimangono enormi, come gestire i danni ulteriori portati dal riscaldamento globale e limitare quelli dovuti agli inquinanti presenti nel terreno. Ma il livello di salinità è in miglioramento e qualche specie di pesci è tornata presente. Forse la dimostrazione che effettivamente la natura può riprendersi anche da disastri come questo.

Giornalista, ogni settimana scrive per Wired Italia “Non Scaldiamoci”, la newsletter sulle conseguenze politiche e sociali del riscaldamento globale e delle questioni ambientali. Si è occupato soprattutto di ambiente e politica estera, con un’attenzione particolare al continente africano, per varie testate. Tra queste Il Foglio, Wired Italia, Linkiesta, Rolling Stone, Repubblica ed Esquire Italia. Ha scritto reportage dall’Africa, dalla Norvegia, dall’Australia, dalla Polonia, dalla Francia e dal Parlamento europeo. È editor della rivista di saggistica e approfondimento culturale L'indiscreto e dal 2020 al 2022 ha insegnato all’Università degli Studi di Ferrara.