Lo sviluppo del software con la GenAi
Alcune considerazioni sull’impatto della GenAI negli ambienti di sviluppo collaborativo: dall’Hackathon alla pratica quotidiana degli sviluppatori software. Hackathon
L’incontro a CUBO Unipol tra Daniele Chieffi, Direttore Comunicazione e PR Dipartimento per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione Presidenza del Consiglio e Fernando Vacarini, Responsabile Media Relations Gruppo Unipol e Direttore Changes.
L’incontro a CUBO Unipol tra Daniele Chieffi, Direttore Comunicazione e PR Dipartimento per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione Presidenza del Consiglio e Fernando Vacarini, Responsabile Media Relations Gruppo Unipol e Direttore Changes.
Ci sono aziende che riescono a prevenire le crisi sui social network e in generale riescono nel progetto ambizioso di trasformare una possibile criticità in un caso di successo. Questo avviene quando un’azienda ha una prassi consolidata per affrontare questi eventi e riesce a fare tutte le mosse giuste, velocemente. Nella maggior parte dei casi però questo non avviene perché le crisi che arrivano dal web sono spesso inaspettate e le uniche armi a disposizione per difendersi sono l’ascolto e l’analisi della Rete, e il monitoraggio costante dell’infosfera, ovvero della realtà analogica e digitale in cui tutti, persone e aziende, viviamo all’interno di una democrazia web che ha cambiato le regole e incide direttamente sulla reputazione. E quanto emerso dal dialogo tra Daniele Chieffi, giornalista e comunicatore, direttore comunicazione e PR del Dipartimento per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione della Presidenza del Consiglio e autore del libro La reputazione ai tempi dell’Infosfera. Cos’è, come si costruisce, come si difende (Franco Angeli Edizioni, 2020) e Fernando Vacarini, Responsabile Media Relations Gruppo Unipol e Direttore Responsabile del magazine digitale Changes, sul tema della gestione della “crisi reputazionale”. Il dibattito, moderato dalla giornalista del Sole24Ore, Monica D’Ascenzo, si è svolto all’interno degli Incontri di CUBO, il museo d’impresa del Gruppo Unipol, realizzato per condividere esperienze attraverso il linguaggio della cultura, raccontare i valori del Gruppo Unipol e contribuire alla crescita culturale dei territori e delle comunità in cui opera.
La realtà in cui viviamo oggi è il risultato dell’interconnessione molto forte tra analogico e digitale e ha mutato, sta mutando e muterà sempre di più non solo la realtà del contesto dei comunicatori ma anche il modo in cui facciamo esperienza in cui conosciamo la realtà. L’Infosfera è, nella definizione di Chieffi, esattamente questo: l’unione tra analogico e digitale senza differenze. «La trasformazione è iniziata nel 2007 e, in particolare, a luglio quando fu presentato il primo Iphone» ha sottolineato Chieffi. «Questo ci ha permesso di uscire dai limiti fisici della Rete che fino ad allora voleva dire navigare con i pc, in maniera scomoda anche con i portatili, ed entrare in un altro mondo in cui attraverso lo smartphone siamo costantemente connessi, always on». In questo contesto, ha ricordato Chieffi, i social media sono diventati un fenomeno di massa e l’unione dei due elementi (connessione costante e social media) ha cambiato la nostra realtà cognitiva. «Al centro oggi c’è il contesto sociale e ciò che è disposto a dire su qualcosa e qualcuno» ha aggiunto Chieffi. «L’Infosfera non riguarda solo le persone, ma anche le aziende e questo ha cambiato il modo di conoscere sé stesse e di rapportarsi agli stakeholedrs: il modo in cui si parla dell’azienda è parte fondamentale del processo di avvicinamento del brand alle persone e la reputazione è un asset fondamentale nei bilanci e nella vita economica delle imprese».
Il Gruppo Unipol tra i primi in Italia ha compreso il valore della reputazione, considerandolo un asset fondamentale per la crescita di tutta l’organizzazione, consapevole che si costruisce con fatti e iniziative concrete e che si valorizza con la comunicazione. Vacarini ha ricordato che dal 2014 Gruppo Unipol ha costruito un framework per la gestione della corporate reputation con l’obiettivo di integrare stabilmente questo asset nei processi di business planning. «Le funzioni Comunicazione e Risk management e l’Osservatorio Reputational & Emerging Risk – un presidio strutturato sui rischi emergenti e reputazionali con un approccio strategico e proattivo per anticipare i trend, prevenire i rischi emergenti e cogliere le future opportunità di business – sono parte attiva di questo processo che coinvolge però tutta l’azienda» ha sottolineato Vacarini.
Governare la reputazione non è un processo banale perché non basta “comportarsi bene”. La ragione è semplice e allo stesso tempo spiazzante: la reputazione è un effetto delle nostre azioni ma non ci appartiene perché è un prodotto sociale. «Tutti cerchiamo di costruire una buona reputazione che misura il grado di accettazione sociale, tutti vogliamo fare buona impressione e affidiamo agli altri il giudizio finale» ha detto Chieffi. «Ma quante volte ci sorprendiamo del giudizio altrui? Questa è una dinamica che siamo abituati a vivere, ma è diventata più complessa con il digitale che ha amplificato i giudizi sulle persone e, questo è il fatto nuovo, anche sulle aziende». Secondo l’analisi di Chieffi, questo ha portato le imprese a cambiare il loro modo di porsi, non concentrandosi più solo sulla notorietà di marca ma guardando alla reputazione di marca, per fare in modo che le persone parlino bene del loro brand. «È una dinamica sfidante per le aziende che devono saper costruire i simboli giusti per rappresentarsi e governare la reputazione nel contesto sociale». Accettare la sfida significa accettare le regole del gioco e cambiare prospettiva secondo l’analisi di Vacarini. «Le persone, i consumatori in generale, hanno voce in capitolo sulle nostre scelte: se non saremo in grado di assecondare le loro richieste faremo sempre più fatica a vendere i nostri prodotti e a fare risultati in Borsa» ha sottolineato Vacarini che vede tre prove da superare in questo percorso: la prima è culturale, le aziende hanno bisogno di tempo per cambiare punto di vista e approccio; la seconda è di tipo organizzativo perché quando si cambia anche i modelli devono farlo; la terza è fare un salto in avanti e dare alla purpose aziendale un ruolo nella società, diventare brand attivi, rispondendo a bisogni concreti.
La reputazione di una persona o di un’azienda è strettamente collegata a come il contesto sociale percepisce quel soggetto coerente e vicino ai valori che condivide. Per affermare il purpose, ovvero i valori e la storia dell’azienda, la coerenza e la sincerità sono le prime armi a disposizione di un’impresa. «Bisogna stare molto attenti a non sposare trend sociali di moda se non sono parte del DNA dell’azienda» ha ricordato Chieffi. «La genuinità della scelta è vincente: non possiamo pensare che un’impresa che ha sempre raccontato di sè stessa un sistema valoriale, proprio nel momento in cui c’è un trend nuovo cambi strada». Secondo l’analisi di Chieffi, il brand activism deve essere una presa di coscienza, una dimostrazione di cambiamento che mantenga la sincerità. «Sembra banale ma è complesso nella sua praticità: le aziende devono comportarsi come delle persone, pena l’esclusione dal contesto sociale che diventa una crisi reputazionale, e questo processo deve coinvolgere tutti i livelli aziendali perché tutti sono potenziali brand ambassador».
La comunicazione aziendale fatta dagli “ambasciatori di marca” secondo Vacarini è una delle sfide più impegnative da vincere. «C’è ancora un gap culturale da colmare soprattutto per quanto riguarda i social media e c’è paura di sbagliare: la prima cosa, invece, è proprio accettare che si possano fare errori a patto che in contenuti positivi siano la maggioranza».
Una delle strade per le aziende di essere attive e più vicine alle persone secondo l’analisi di Chieffi è diventare media company per entrare in conversazione con gli stakeholder con un racconto coerente, evitando tre errori tipici della comunicazione corporate: comunicare in maniera autoreferenziale, non ponendosi mai la domanda: di cosa hanno bisogno i miei stakeholder? In secondo luogo, considerare il mondo digitale e social solo come strumento editoriale: sono tecnologie che abilitano la conversazione che per sua natura è alla pari; e infine non adeguarsi fino in fondo al linguaggio e ai formati che gli stakeholder utilizzano. Vacarini ha ricordato come Gruppo Unipol ha deciso di diventare una media company sposando il brand journalism e delineando contenuti di qualità non autoreferenziali attraverso il magazine Changes. «Siamo nati sul web e poi abbiamo lanciato un magazine semestrale di approfondimento. Decliniamo i contenuti a seconda dei target di riferimento, non siamo autoreferenziali e trattiamo temi che possono essere condivisi da un pubblico ampio che ci segue perché capisce che offriamo un punto di vista originale» ha detto Vacarini.