Il New Deal del welfare

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Il New Deal del welfare

Secondo il rapporto del Think tank “Welfare, Italia” del Gruppo Unipol e di The European House-Ambrosetti presentato a Roma, un sistema di welfare sostenibile è possibile grazie all’integrazione fra pubblico e privato. Centrale la sfida della crescita.

Secondo il rapporto del Think tank “Welfare, Italia” del Gruppo Unipol e di The European House-Ambrosetti presentato a Roma, un sistema di welfare sostenibile è possibile grazie all’integrazione fra pubblico e privato. Centrale la sfida della crescita.

L’emergenza è riassunta in un numero: -7,4 milioni di persone in età lavorativa in Italia nel 2050. Secondo il Rapporto Think Tank “Welfare, Italia” sviluppato in collaborazione con The European House-Ambrosetti e presentato il 4 dicembre 2019 nel corso dell’evento “Welfare: il tempo è (quasi) scaduto”, la netta riduzione della forza lavoro nel nostro Paese metterà a rischio la sostenibilità del sistema di protezione sociale ispirato a una vocazione di tipo universalistico. Il motivo? Si tratta di una questione di equilibrio: mentre i lavoratori destinati a pagare il costo dei servizi previdenziali si ridurrà, coloro che ne beneficeranno sono destinati ad aumentare. Nel 2050, infatti, lo studio indica un rapporto di 1,1 fra pensionati e occupati (gli inattivi saranno più numerosi degli attivi) con un raddoppio tra l’altro della spesa in long term care per gli over 80.

Le ragioni di questa dinamica sono per lo più di carattere demografico. In primo luogo, l’aumento della speranza di vita – notizia di per sé positiva – ha consentito alla popolazione italiana di essere una delle più longeve al mondo con una crescita di 1,7 anni dal 2008 a oggi. Questo fenomeno, però, va di pari passo con un bassissimo tasso di natalità che iè precipitato diminuendo del 25%. Il rapporto, realizzato anche con il sostegno di un comitato scientifico composto da Veronica De Romanis (professore di Politica economica europea, Stanford University di Firenze e LUISS di Roma), Walter Ricciardi (presidente “Mission Board for Cancer”), Stefano Scarpetta (direttore dipartimento di Employement, labour and social affairs, OECD) e Giuseppe Guzzetti (avvocato e filantropo già presidente Fondazione Cariplo), sottolinea che nel 2050 ci saranno qualcosa come 36mila nascite in meno all’anno e un numero di anziani non autosufficienti che sfiorerà i 3 milioni. Tutto ciò renderà ancora più gravoso sostenere il sistema.
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Già oggi l’Italia spende per il welfare (anno 2018) 488,3 miliardi di euro: di questi 281,5 miliardi sono serviti per garantire il pagamento delle pensioni (il 57,6% del totale dell’intera spesa sociale in Italia). La cifra è destinata ad aumentare ma in prospettiva non ci saranno abbastanza lavoratori per pagare il conto. Già oggi questa somma ciclopica è pari al 16,3% del Pil che pone l’Italia in cima alla classifica europea per questa specifica voce di spesa. Le entrate contributive pari a 222,8 miliardi di euro medi nei bilanci degli ultimi 4 anni non sono in grado di coprire le spese necessarie a pagare le pensioni creando un disavanzo di 29 miliardi che lo Stato è chiamato a coprire con trasferimenti da altre voci di spesa. Una situazione destinata a peggiorare. 

La soluzione? In primo luogo, è necessaria una forte integrazione fra pubblico e privato, l’unico strumento in grado di far fronte non solo ai crescenti vincoli di spesa e al forte dualismo geografico tipico del nostro Paese, ma anche all’evoluzione della domanda di welfare che caratterizza la società italiana. Secondo il rapporto il settore privato è fondamentale per assolvere la vocazione universale del sistema di welfare italiano. A fine 2018 gli aderenti a forme di previdenza complementare sono stati 7,9 milioni, inoltre sono stati spesi 40 miliardi in spesa sanitaria; sono infine 1,7 milioni gli italiani che possono contare su servizi di welfare aziendale. La sanità è proprio l’ambito che vede già oggi un ruolo fondamentale del privato con 12,6 milioni di beneficiari nel 2018.

In sostanza il rapporto indica quattro pilastri di azione:

1.     ottimizzare le basi informative per il monitoraggio del welfare aumentando la mole di dati pubblici e privati per consentire un migliore processo decisionale;

2.     lanciare un Welfare New Deal a livello europeo semplificando le normative esistenti e predisponendo risorse a livello nazionale ed europeo;

3.     adeguare l’offerta di servizi ai nuovi bisogni di age management e di long term care, incentivando l’adesione a fondi pensioni integrativi;

4.     aumentare la conoscenza dei cittadini su queste tematiche attraverso adeguate campagne di comunicazione.

Tutto ciò è centrale anche se non può prescindere dal nodo della crescita. A sostenerlo l’amministratore delegato del Gruppo UnipolCarlo Cimbri, nel corso del suo intervento: «Oggi abbiamo esaminato come redistribuire meglio le risorse che ci sono, come favorire forme integrative di previdenza, come aumentare la consapevolezza dei cittadini dei rischi che comporta l’attuale situazione produttiva e demografica. Noi possiamo inventarci tutte le alchimie possibili per la redistribuzione delle risorse ma il vero problema è come aumentare nel nostro Paese la capacità di produrre ricchezza, come aumentare i posti di lavoro, come favorire il fare impresa».

I bassi tassi di crescita dell’Italia rappresentano, infatti, un ulteriore pericolo per la sostenibilità del sistema. Ne sono convinti tutti i partecipanti alla presentazione, da Carlo Blangiardopresidente Istat ad Alberto Brambillapresidente di Itinerari previdenziali, passando per Valerio De Molliceo di The European House – Ambrosetti e Tiziano Treupresidente del Cnel. L’aumento del Pil nei prossimi anni ci pone in coda alla classifica europea. Secondo l’Istat nel 2019 il Paese si fermerà allo 0,2% mentre le stime per il 2020 parlano di uno 0,6%. Preoccupa anche la scarsa produttività: nel 2018 il rapporto tra prodotto e lavoro impiegato per realizzarlo è diminuito dello 0,3%, sintesi di una crescita delle ore lavorate (+1,3%) superiore a quella del valore aggiunto (+1%).

Fondamentale, quindi, sciogliere i nodi del ritardo italiano: in primo luogo ridurre il divario Nord-Sud, come ha evidenziato il ministro per il MezzogiornoGiuseppe Provenzano, ma anche quello di genere e, non ultimo, agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani. Si pensi che, sempre secondo il rapporto, in Italia quelli che non studiano, non lavorano e non si formano sono il 25,5% ma in alcune regioni meridionali superano il 40%. Se si riuscisse a colmare alcuni di questi gap  l’impatto positivo sarebbe pari a un valore equivalente al 13% del Pil.  

Foto di Francesca Sanlorenzo

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