La musica che non suona

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La musica che non suona

I clic di un brano su Spotify danno la misura del successo di un cantante. Ma quasi un quarto delle canzoni presenti sulla più utilizzata piattaforma di streaming al mondo non è mai cliccato.

Ogni anno Spotify rende pubblica una serie di dati e statistiche che riguardano la piattaforma. Nella speciale classifica dei più ascoltati c’è sua maestà Taylor Swift, che totalizza un totale di più di 29 miliardi di streaming delle sue canzoni, seguita a distanza dal rapper (e wrestler) Bad Bunny con poco più di 16 miliardi. Questi numeri si traducono in guadagni: per i musicisti: 0,004 dollari a singolo streaming. Nel caso della Swift si tratta di circa 116 milioni di dollari nel 2023. Ma la regina resta un caso a sé. Perché c’è un altro il dato dell’ultimo rapporto Spotify Wrapped che colpisce maggiormente e non ha a che fare con le mega-star globali ma con chi invece sta esattamente all’estremo opposto della catena alimentare dello streaming. Il dato è 45 milioni. Ovvero, il totale delle canzoni presenti su Spotify che non sono mai state ascoltate da nessuno.

Cifra che assume un significato ben più pregnante se tradotto in percentuale: 24%. Vale a dire che quasi un quarto delle canzoni presenti sulla più utilizzata piattaforma di streaming al mondo, con 239 milioni di abbonati e un numero potenziale di ascoltatori che supera i 600 milioni, è come se non esistessero. Cioè: esistono, stanno lì, qualcuno le ha caricate, ma non c’è anima viva che si sia mai sognata di cliccarci sopra. Neppure chi le ha caricate, il che è semplicemente surreale.

Nell’era digitale il guadagno della musica si comprime

Se si alza di poco l’asticella, i termini della questione appaiono ancora più macroscopici. I brani che non superano i 10 ascolti sono 80 milioni. Ponendo come soglia da non valicare i mille ascolti in un anno, si arriva allo stratosferico numero di 158 milioni di brani, e cioè l’86% del totale. Traduciamo nuovamente in termini economici, per rendere più chiaro il concetto: significa che quasi nove artisti su dieci presenti su Spotify vedono recapitarsi per la loro canzone più ascoltata nell’anno precedente la principesca cifra di 4 dollari.

Se si volesse rappresentare Spotify sotto forma di piramide, la base sarebbe quindi talmente estesa rispetto all’apice da risultare praticamente piatta. Ma al di là delle evidenti storture di un meccanismo del genere, che ha reso sostanzialmente la carriera di musicista più simile a un hobby che a un lavoro retribuito, sono proprio quei 41 milioni di canzoni con zero ascolti a colpire la fantasia. Come è possibile? Peraltro, si tratta di un numero destinato a crescere con progressione geometrica, considerando che ogni giorno vengono caricate centoventimila canzoni nuove. A questo ritmo, il girone dei dannati e dei dimenticati non potrà che ampliarsi sempre di più.

L’idea di questa massa abnorme di musica che rimane dormiente, potenza aristotelica che non passerà mai all’atto, è quasi inquietante e perfettamente simbolica dei tempi. Anche al netto di quanti di questi brani siano in realtà creati da intelligenze artificiali (Spotify li ammette, a patto che non siano palesi imitazioni di brani già esistenti) è chiaro che in questo universo di musica che più che “liquida” appare liquefatta c’è una variabile dell’equazione che continua a contare più di ogni altra: la promozione. Cioè, esattamente quella risorsa che l’industria musicale – che con lo streaming è tornata ai tempi d’oro degli anni 80 e 90, quando era il disco fisico il medium per eccellenza – riserva ormai solo al 5% di musicisti in grado di assicurare un ritorno. L’investimento pubblicitario, che una volta era garantito un minimo anche agli autori più di culto e indipendenti, oggi semplicemente non esiste più. Ciascuno deve fare per sé. I risultati sono quelli che vediamo.

Una App per scoprire le chicche digitali nascoste

Nell’era analogica non era così. Persino gli album più underground, i cosiddetti “private press” stampati in 99 copie per ragioni fiscali, alla fine trovavano un loro pubblico di nicchia e venivano venduti (e quindi ascoltati). Per giunta rappresentavano dal punto di vista collezionistico un investimento a lungo termine, considerate le quotazioni che hanno oggi. Per tutte quelle canzoni figlie di nessuno su Spotify, quelle inchiodate al desolante “0” di streaming, non ci sarà neppure questa soddisfazione postuma.

L’unica possibilità, benché remota, di essere ascoltate almeno una volta può provenire da una app con un nome decisamente arguto: Forgotify. Un algoritmo caritatevole che permette di creare delle playlist composte esclusivamente di canzoni mai ascoltate su Spotify, le mette in coda e le propone agli utilizzatori della piattaforma. Logica vuole che nel momento stesso in cui finalmente arrivano all’orecchio di qualcuno si dovrebbero auto eliminare dalla categoria. Ma almeno un essere umano che può dire di averle sentite c’è. E comunque, come si sarà capito, non è certo un problema: le tracce fantasma sullo streaming sono destinate a diventare la maggioranza. Silenziosa, ovviamente.

Foto: Alexander Shatov/Unsplash

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​