Giovani e politica: più interesse ma meno fiducia
L’anno passato, la vittoria elettorale della Destra aveva rilanciato la contrapposizione fra gli schieramenti e rivitalizzato l’interesse e la fiducia dei giovani per la politi
Dalle scelte di gruppo del consumo tribale agli acquisti online, il consumo mantiene le sue caratteristiche: compriamo per non sentirci soli. La pandemia ha esaltato la nostra propensione ai link sociali e i grandi marchi saranno sempre più rilevanti.
Dalle scelte di gruppo del consumo tribale agli acquisti online, il consumo mantiene le sue caratteristiche: compriamo per non sentirci soli. La pandemia ha esaltato la nostra propensione ai link sociali e i grandi marchi saranno sempre più rilevanti.
Cosa chiediamo oggi ai brands? Appartenenza, riconoscimento, ascolto. Lo suggeriscono alcuni fenomeni che, per quanto eterogenei, complessivamente ribadiscono la natura dell’uomo come animale sociale, giustificando il consumo all’interno di questa definizione antropologica. Per quanto appaia paradossale nel momento in cui il Corona virus ci ha rinchiuso nelle nostre abitazioni, suscitando la paura dell’altro come potenziale fonte di contaminazione, ciò cui aspiriamo quando facciamo acquisti o ci dedichiamo a consumi culturali, è la sensazione di non essere soli. Questo desiderio, che oggi forse emerge con particolare risalto, in realtà è precedente alla diffusione della pandemia. È un bisogno profondo, quello di appartenenza, che è riassumibile nel concetto: “social links are more important than the things”, i legami tra le persone sono più importanti dell’utilizzo che facciamo delle cose.
Questa lettura del consumo come chiave di accesso a un gruppo di simili discende dal consumo “esperienziale” che ha caratterizzato gli anni dal 2010 e da qualche tempo si articola in un’offerta, che prevedo si farà sempre più ampia, di forme di consumo collettivo. Una case history particolarmente illuminante in questo senso è rappresentata da Tough Mudder, un percorso ideato da due studenti di Harvard che consiste nel superare 25 ostacoli attraversando il fuoco, immergendosi nell’acqua gelata e sottoponendosi a scosse elettriche. Nel 2016 in tutto il mondo ben 5 milioni di persone hanno pagato una cifra media attorno ai 150 euro per una mezza giornata di intensa sofferenza fisica. Per chi ha supposto che la base del marketing attuale coincidesse con la creazione di esperienze piacevoli è sorprendente che si paghi per soffrire. Ma ciò che caratterizza questa gara rispetto alle classiche competizioni di endurance è che, per la prima volta, un’azienda occidentale rifiuta di di iscrivere consumatori singoli e a vincere è un intero team. Dunque la vittoria è un obiettivo comune, da perseguire tutti insieme. Come avviene nelle escape room, dalle quali si esce solo unendo le forze, il valore relazionale del consumo, la sua capacità di far evadere dall’individualismo per “fare gruppo”, per l’utente è preferibile e superiore a quello edonistico (che in questo caso è difficilmente riscontrabile) o utilitaristico.
Non solo: per la Mudder Community l’elemento identitario cruciale è il fatto che il legame che si sviluppa tra i “consumatori” non sia determinato dalla società promotrice dell’evento, per quanto essa ne benefici, bensì che esso sia spontaneo e tra pari. In altre parole, tramite la mia partecipazione a un evento, o guardando una serie tv contemporaneamente ai miei amici o acquistando un tipo di moto o di birra, mi sento parte di una comunità reale, virtuale, o perfino immaginaria e questa vicinanza agli altri, questa comunanza di tratti tra me e loro è più rilevante per la mia costruzione identitaria di quanto lo sia la categorizzazione del sé che posso ottenere tramite l’enfatizzazione della mia alterità rispetto agli altri. E qui si inserisce un secondo bisogno che oggi il consumatore vede riconosciuto tramite il consumo: quello di riconoscimento. Nel gennaio di quest’anno il quotidiano Usa New York Times ha pubblicato un articolo intitolato “Would you work for nothing at Disney?” (Lavoreresti gratis per la Disney?) in cui si riferiva delle 10 mila candidature ricevute per svolgere un incarico annuale non retribuito: aiutare gli aspiranti visitatori dei parchi Disney a pianificare la loro giornata. Questa dedizione si può spiegare solo supponendo che nei marchi i consumatori trovino qualcosa che vale più di una retribuzione: il senso di contare qualcosa, il piacere di essere ascoltati, la soddisfazione di essere stati scelti per il contributo che si può dare. I marchi restaurano quindi un senso di sé che troppo spesso viene frustrato nel mondo del lavoro, premiando quelle stesse qualità individuali che altrove stentano a emergere o a essere considerate. Inoltre, la fedeltà dei consumatori si spiega anche col valore “rassicurante” dei marchi: in un contesto professionale in cui la precarietà è sempre più estesa, in cui le imprese storiche chiudono e si affermano in brevissimo tempo sempre nuove start up, i brand resistono nel tempo offrendo un solido ancoraggio, una garanzia di continuità nella differenza, come i vari episodi di James Bond che aggiornano il personaggio pur lasciandone inalterati i tratti principali. Un marchio, insomma, può fungere da punto di riferimento per definire sé stessi in un orizzonte mutevole e il suo consumo assumere un valore sociale che travalica l’intento originale di utilizzo.
Assistiamo tuttavia a una contraddizione: l’amore per un marchio di frequente si accompagna all’odio per l’azienda che ne è proprietaria. Un caso tipico sono gli Alfisti che, in particolare dopo il take over del 1986, detestano la società Fiat. Ma ci sono anche i fan della Nutella che, in particolare dopo la contestazione fatta dalla Ferrero del World Nutella Day (il 5 febbraio), promosso spontaneamente da una blogger americana, adorano il prodotto pur detestando l’azienda che lo produce. Questo utilizzo del brand come indicatore valoriale, come incarnazione di un legame, si estrinseca non solo quando scegliamo i prodotti, ma anche quando li escludiamo. Un caso lampante è quello degli alimenti “senza” (senza glutine, grassi, senza coloranti o senza olio di palma) o ai cosmetici senza parabeni o ingredienti artificiali) in cui è proprio la mancanza di certi elementi a connotare la scelta e identificare il tipo di consumatore. In più ci sono gruppi di utenti la cui identità si costruisce “in negativo”, a partire dal rifiuto di certi brands, come gli anti- Apple. Il colosso fondato da Steve Jobs avrebbe, secondo le motivazioni di questi ribelli, una base di estimatori ciecamente fanatici, un’impostazione egemonica che impedisce di fare modifiche ai programmi o interagire con supporti di altri marchi e un marketing troppo aggressivo. Eppure, al di là delle critiche, anche in questo caso l’identità del consumatore, il suo legame con gli altri, l’affermazione dei suoi valori si struttura comunque attorno a un brand, perché la conventio ad escludendum pare indirizzarsi in realtà più verso l’azienda Apple che verso l’universo con il logo della mela. Internet, in tutto questo, ha aumentato la possibilità da parte dei consumatori di diffondere e difendere la propria marca, di produrre user generated content a favore dei valori che simbolicamente un brand rappresenta.
Per quanto l’attività digitale susciti frequenti preoccupazioni sui media con riguardo alla privacy e alla condivisione dei dati forniti, in realtà l’ansia per questo “dark side” del web non emerge dalle nostre rilevazioni etnografiche. Probabilmente il bisogno identitario e di riconoscimento è più forte delle ansie rispetto all’uso dei propri dati e al potere degli algoritmi. Ma va altresì sottolineato come oggi nel contesto dei marchi sia il consumatore a condurre il gioco, anziché le aziende che ne raccolgono i dati: con un processo di “brand hijacking,” cioè di “dirottamento del marchio”, come lo ha definito nel 2005 Alex Wipperfürth, a guidare la definizione e l’evoluzione di un brand ora sono primariamente gli acquirenti e le loro azioni, e questo mutamento fa prevedere un futuro molto eccitante. Il web ha dischiuso una grande libertà: per il consumatore di fare ciò che prima non si poteva fare, contribuendo a determinare le caratteristiche e la missione dei brand; per i marchi di cui guadagnare nuove fette di mercato e di affermarsi sempre più come significativi simboli di identità, grazie ai quali le persone possono esprimere i valori che difendono, i comportamenti socio-economici che apprezzano, le norme culturali cui si adeguano. Per questo, seppure in futuro non è escluso che grandi aziende possano scomparire, fondersi o essere acquisite, per i consumatori i brand diventeranno sempre più rilevanti, come un elemento inestricabile dalle loro vite.
Testo raccolto da Elisa Venco per Changes Magazine – New Consumer