La guerra ai robot è inutile

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La guerra ai robot è inutile

La nascita dell’Industria 4.0 ha fatto aumentare i timori di una sostituzione della forza lavoro umana con quella dei robot. Ma questa visione apocalittica non è l’unica e neanche la più probabile.

La nascita dell’Industria 4.0 ha fatto aumentare i timori di una sostituzione della forza lavoro umana con quella dei robot. Ma questa visione apocalittica non è l’unica e neanche la più probabile. 

«Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno». La famosa e ipercitata “legge zero” di Isaac Asimov è oggi prepotentemente al centro dell’attenzione perché, a differenza di quando questa frase venne pronunciata, ormai oltre trent’anni fa, da un personaggio del romanzo di fantascienza del noto scrittore russo, I robot e l’Impero, non sono pochi coloro che la mettono in discussione.

I robot sono ormai fra noi, come negarlo. Si va dai semplici elettrodomestici alle sofisticate macchine umanoidi, molte delle quali hanno fatto il loro ingresso anche nelle nostre case e che al momento assomigliano a giocattoli ipertecnologici dalle mille funzioni. Ma altri robot sono visti con grande sospettose non con timore, perché prendono sempre più il posto della forza lavoro umana nelle catene di montaggio, ma non solo: sono numerosissimi gli ambiti in cui l’intelligenza umana è ormai sostituita da quella digitale. E non stiamo parlando soltanto di linee di montaggio ma anche del commercio e dei servizi: si pensi al primo caffè totalmente automatizzato aperto a San Francisco, dove i prodotti sono offerti a un costo più basso perché non esiste personale umano da retribuire, o ai robot advisor.
Ed è proprio questo il nodo della spinosissima questione: siamo alla vigilia di una vera e propria rivoluzione che vedrà le macchine sostituire i lavoratori in carne e ossa? Ci aspettano anni di produzione record ma anche di disoccupazione senza precedenti?

Negli ultimi tempi gli studi e le ricerche su questo argomento si susseguono a strettissimo giro, a conferma della centralità del tema. Appena un anno fa ha suscitato scalpore la presentazione a Davos, dove si tiene il tradizionale Forum economico mondiale, del rapporto del Wef “The Future of Jobs” in cui, nero su bianco, era riportata una cifra che a molti ha fatto tremare le vene ai polsi: sull’altare della cosiddetta “Quarta rivoluzione industriale”, infatti, entro il 2020, dovrebbero essere sacrificati oltre 5 milioni posti di lavoro. Per essere precisi si potrebbero perdere 7,1 milioni di posti di lavoro, a cui farebbero da contrappeso la nascita di altri 2,1 milioni di posti di lavoro più specializzati. Il saldo, insomma, sarebbe negativo.

Di recente, però, si segnalano anche analisi dal tenore opposto. L’Ocse, l’organizzazione che raggruppa le principali potenze economiche mondiali, è per esempio molto più ottimista: appena il 9% dei posti di lavoro nei paesi a maggior livello di industrializzazione sarebbero a rischio a causa dei recenti cambiamenti tecnologici.
Dove sta la verità? Difficile dirlo ma proprio nel corso del Forum economico mondiale di quest’anno, sempre fra le nevi di Davos, e appena un anno dopo la presentazione del report “The Future of Jobs” con la sua visione apocalittica, ecco che Accenture svela i risultati dello studio “Harnessing Revolution: Creating the Future Workforce”, condotto su un campione di 10.527 lavoratori di dieci paesi industrializzati (Italia, USA, Brasile, Regno Unito, Francia, Germania, Australia, India, Giappone e Turchia). Le conclusioni spostano il focus della questione: lo sviluppo di competenze come capacità di leadership, pensiero critico e creatività, o ancora l’intelligenza emotiva, possono contrastare la riduzione dei posti di lavoro legata alla crescente automazione. I numeri fanno ben sperare: la quota di posti di lavoro a rischio diminuirebbe dal 10% al 4% entro il 2025 negli Stati Uniti dal 9% al 6% nel Regno Unito e dal 10% al 5% in Germania. E come se non bastasse l’84% degli intervistati si dice ottimista sull’impatto del digitale nell’ambito della propria professione.

Non possiamo dimenticare poi che la digitalizzazione potrebbe imprimere quello scatto di cui necessita l’economia mondiale, ancora alle prese con le conseguenze di una delle crisi economiche peggiore dell’ultimo secolo.

I cambiamenti che stiamo vivendo impongono attenzione alle competenze


Come leggere queste analisi e i fenomeni su cui cercano di gettare una luce? Sembra che un’importanza crescente la stia rivestendo sempre di più la specializzazione della forza lavoro. I cambiamenti che stiamo vivendo impongono al mondo produttivo una costante attenzione alle competenze che, se adeguatamente valorizzate, rappresentano un argine contro gli aspetti più negativi della “digitalizzazione” e della “robotizzazione”. Di esempi concreti ne esistono già, e non tanto lontano da noi. In Germania, per esempio, assistiamo a quello che soltanto a prima vista sembra un paradosso: la prima economia europea è in testa a livello mondiale per robotizzazione dell’industria, soprattutto nel settore automobilistico. Eppure il numero di operai del settore non scende come si crederebbe: il modello on demand, infatti, impone alle grandi industrie la presenza di operai specializzati in grado di effettuare lavori che un robot non potrebbe eseguire. In Mercedes, per esempio, i nuovi modelli in produzione rappresentano un tipico esempio di produzione 4.0. Le vetture sono di serie e per realizzarle i robot sono indispensabili, ma si tratta anche di prodotti che rispondono alle esigenze del singolo cliente. Si pensi che alcuni di loro richiedono delle pietre Swarosky sui fari, o altre rifiniture molto ricercate. Per applicarle a dovere, però, l’operaio in carne e ossa, meglio se dotato di solide competenze artigianali e dallo spiccato senso estetico, è insostituibile.

Una considerazione, quest’ultima, che ci aiuta a sottolineare un aspetto che non si dovrebbe mai perdere di vista. «Lo sviluppo di una intelligenza artificiale potrebbe significare la fine della razza umana», ha avvertito Stephen Hawking qualche tempo fa. Difficile dire se l’affermazione del noto fisico sia una provocazione che miri a ribadire che l’essere umano – intendendo con questo termine non solo un organismo vivente, ma soprattutto un soggetto pensante e capace di apprendimento  – sia facilmente sostituibile da un ammasso di chip e di materiale high-tech che agisce sulla base di un programma predefinito.
In ogni caso forse sarebbe il caso di ricordare l’unicità del cervello umano, il gap esistente fra i cento miliardi di neuroni sviluppati da milioni di anni di evoluzione e un algoritmo, per quanto complesso e avanzato. L’uomo, in breve, possiede un patrimonio cerebrale che gli consente  di essere innovativo, e soprattutto capace di adattarsi ai cambiamenti a tempo di record. In una parola di imparare.     

Sembra di poter concludere che non ci sia una vera emergenza legata alla diffusione della fabbrica 4.0: l’essere umano è insostituibile. Certo la parola d’ordine dovrà sempre più essere “reskilling”, ovvero formazione continua della forza lavoro per sfruttare le opportunità offerte dalle tecnologie. La riqualificazione professionale, la capacità dell’uomo di acquisire nuove conoscenze con flessibilità e creatività, quindi, consentirà di riprogettare il lavoro secondo il potenziale umano amplificato dall’uso delle tecnologie 4.0. Un modo per non subire il progresso ma per sfruttarlo, a patto che si sia in grado di adottare i giusti provvedimenti, anche politici e, ovviamente, fiscali. E proprio qui si inserisce la proposta di un simbolo vivente dell’innovazione e della digitalizzazione, Bill Gates, che qualche settimana fa ha lanciato la sua proposta: «Al momento, un lavoratore umano che guadagna 50.000 dollari ha un reddito tassato. È per questo che se un robot svolge lo stesso tipo di lavoro, dovrebbe essere tassato in egual misura». Le risorse che in questo modo si creerebbero potrebbero aiutare il passaggio verso un “utilizzo” degli esseri umani in altri settori per svolgere compiti diversi dagli attuali. Qualcosa in più di un auspicio, piuttosto un’indicazione programmatica

Inizia la sua carriera nell’ufficio studi di uno dei simboli dell’industria italiana, il Gruppo Ferruzzi, dove muove i suoi primi passi da giornalista scrivendo per la rivista internazionale “Innovazione e Materie Prime”. Alberto Federici ha coltivato e fatto crescere questa passione anche come redattore economico del quotidiano mantovano Nuova Cronaca. Nel 2000 è sbarcato in Winterthur Assicurazioni, dove ha ricoperto ruoli di sempre crescente responsabilità fino a diventarne Responsabile Comunicazione e Marketing. Da questo momento la comunicazione è stato il suo pilastro professionale. Dal 2011 al 2014 è Responsabile Corporate Identity di Unipol, e ha coordinato le attività di brand identity, pubblicità, eventi e sponsorizzazioni. Dal 2014 al 2019 è stato Direttore Corporate Communication e Media Relations Gruppo Unipol​.​