Pedalando verso il benessere
Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Abbiamo esplorato il tema del
Si chiamano Caretta caretta e sono le ambasciatrici della salute dei nostri mari. Come funziona e quali sono i risultati del progetto INDICATOR Impact Turtles (INDICIT) sostenuto dalla Commissione europea.
La plastica, che richiede l’impiego di circa l’8% della produzione mondiale di petrolio, assieme all’acciaio e al cemento, è uno dei simboli industriali della nostra era geologica trovando applicazioni un po’ in tutti gli ambiti. Oltre 8.300 milioni di tonnellate di plastica sono state prodotte in 65 anni e oggi non è facile immaginare un oggetto di uso comune e quotidiano che non contenga polimeri. Leggera, resistente al deterioramento, insolubile in acqua, la plastica una volta che raggiunge gli oceani assorbe altri inquinanti. Dai 4 ai 12 milioni di tonnellate di plastica finiscono nei mari di tutto il mondo ogni anno, causando l’80% dell’inquinamento marino. Rifiuti che per i 4/5 entrano in mare sospinti dal vento o trascinati dagli scarichi urbani e dai fiumi. Il resto è prodotto direttamente dalle navi che solcano i mari, soprattutto pescherecci ma anche navi mercantili ed imbarcazioni turistiche di tutte le stazze. Duratura, la plastica può mantenere la sua forma per centinaia di anni, compromettendo gravemente la salute degli organismi marini con conseguenze determinanti anche per la catena alimentare e quindi per noi. Ecco perché l’inquinamento da plastica è una emergenza che rischia di diventare presto ingovernabile. Il nostro Mare Mediterraneo è tra le aree dove si registra maggiore criticità perché gravemente compromesso dai rifiuti galleggianti. L’allarme è stato lanciato da molti istituti e organismi di ricerca internazionali.
La nota positiva è che la questione delle plastiche in mare sia stato affrontata anche dai produttori di questo materiale che si sono riuniti ad aprile 2018 a Malta per un summit e hanno individuato alcune azioni comuni per fronteggiare l’emergenza. I produttori, giunti da ogni parte del mondo, stanno orientando il loro impegno per rendere la plastica più riciclabile attraverso nuovi processi tecnologici. Una ricerca che per Daniele Ferrari, presidente di PlasticsEurope e vicepresidente di Federchimica, si traduce «in innovazione a 360°, dal design del packaging a materiali più facilmente riciclabili. In Italia l’Università di Siena coordina con Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) il progetto internazionale di ricerca scientifica “Plastic busters MPAs” a cui aderiscono 15 istituti di ricerca e ministeri di 6 paesi del Mediterraneo. Gli obiettivi sono raccogliere informazioni sulla presenza, la diffusione, le caratteristiche e la quantità di rifiuti marini galleggianti nel Mar Mediterraneo; studiare gli effetti delle microplastiche sull’ambiente e sugli organismi marini; sensibilizzare l’attuazione di buone pratiche di gestione dei rifiuti e riciclo della plastica per la produzione di nuovi oggetti in un`ottica di economia circolare; coinvolgere i più piccoli in attività di educazione ambientale».
Tuttavia, nonostante molte organizzazioni del Mediterraneo lavorino su questo fronte, non esiste al momento alcun protocollo che permetta di valutare in modo complessivo il fenomeno. Il progetto Medsealitter nasce proprio da questa esigenza: le plastiche e i rifiuti che inquinano il Mediterraneo, concepito come un bene comune, sono una questione che va affrontata superando le logiche dei confini, delle competenze e delle responsabilità dei singoli Paesi. L’impegno dei partner (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ISPRA, Università di Barcellona e quella di Valencia, Ass Medasset ed Hellenic Centre for Marine Research, AMP Villasimius, Ecole Pratique des Haute Etudes e EcoOcean, Legambiente, Parco Nazionale delle 5 Terre) durerà fino al 2019 e attraverso l’uso di droni, aerei, osservazioni a bordo di piccole navi e traghetti, si valuterà anche l’efficacia degli strumenti normativi che sono stati varati per ridurre la plastica.
Il progetto INDICATOR Impact Turtles (INDICIT) condotto da ISPRA si propone di implementare un protocollo di analisi standardizzato per l’ingestione della plastica da parte delle tartarughe marine. Si vuole valutare l’influenza di riduzione della quantità di rifiuti in mare. Spiega Marco Matiddi, responsabile scientifico del progetto, che le tartarughe Caretta caretta sono animali fortemente colpiti dai rifiuti marini e quindi utili come bioindicatori: dei veri e propri messaggeri dello stato dei nostri mari. Si tratta di una specie di tartaruga marina che nel Mediterraneo spesso interagisce con i rifiuti marini di origini e forme diverse. Li ingoia o vi si trova intrappolata. L’ampia distribuzione geografica della specie, la loro presenza in differenti habitat e la caratteristica di ingerire i rifiuti marini fanno quindi della Caretta caretta un buon indicatore per valutare l’impatto della plastica sulla fauna marina. «Attualmente stiamo valutando l’impatto della plastica, mediante la raccolta di campioni da una rete di partner che interviene su tartarughe marine incagliate, catturate accidentalmente dagli attrezzi da pesca, o trovate spiaggiate. Questo produce una serie di dati uniformi e quindi confrontabili».
Il raggio di azione di INDICIT è ampio. Sostenuto dalla Commissione europea, riunisce 10 partner istituzionali di 5 paesi europei (Francia, Spagna, Portogallo, Italia, Grecia) e 2 paesi extraeuropei (Turchia e Tunisia). Iniziato nel febbraio 2017, il progetto si inquadra nel contesto della Direttiva Quadro sulla Strategia Marina adottata dall’Europa. Qual è la percentuale delle tartarughe che ingeriscono rifiuti e qual è l’evoluzione di quantità di diverse categorie di rifiuti nei campioni da un anno all’altro? Matiddi spiega che dopo un primo anno di analisi eseguite su 611 tartarughe (187 vive e 424 morte rinvenute sulle spiagge) è emerso che il 53% degli esemplari presentava plastica ingerita. Tra le tartarughe morte, il 63% aveva plastica nell’apparato digerente, mentre tra quelle vive è stata rinvenuta nelle feci nel 31% dei casi. I primi risultati del progetto, che si concluderà nel 2019, evidenziano che gli oggetti di plastica si spostano da un mare all’altro galleggiando su grandi distanze per mezzo delle correnti marine. Ad esempio, nello stomaco di tartarughe spiaggiate in Italia è stato rinvenuto l’involucro di uno snack francese, insieme a cannucce, tappi, lenze e ami. dati assumono una valenza ancor più preoccupante, se circoscritti all’area Italiana. Infatti in uno studio pubblicato nel 2017, Loggerhead sea turtles (Caretta caretta): A target species for monitoring litter ingested by marine organisms in the Mediterranean Sea. Environmental Pollution 230 (2017) 199-209, su 150 esemplari di Caretta caretta campionati lungo le coste Italiane il 68% presentava plastica nel tratto gastrointestinale e fra queste ben il 64% aveva più plastica che cibo. L’obiettivo è quello di mettere a punto una metodologia per rendere operativo l’indicatore sulla quantità dei rifiuti marini ingeriti non solo dalla tartaruga marina Caretta caretta ma anche da altri animali come i pesci. La salute di questi animali, di questi guardiani del mare, riflette la salute del mare e quindi anche la nostra.