La faccia giusta per lavorare

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La faccia giusta per lavorare

La nuova frontiera dell’intelligenza artificiale combina tecnologia e neuroscienze. Così è nata l’analisi facciale applicata al reclutamento professionale. Come funzionano le risorse umane digitali.

La nuova frontiera dell’intelligenza artificiale combina tecnologia e neuroscienze. Così è nata l’analisi facciale applicata al reclutamento professionale. Come funzionano le risorse umane digitali.

​​​Il candidato trova un’offerta di lavoro online e invia la candidatura attraverso LinkedIn o Facebook. Se il software che esamina la compatibilità delle caratteristiche dell’interessato con le richieste dell’azienda dà il benestare, questi viene subito ricontattato. Il passo successivo consiste in una sessione di dodici giochi digitali a sfondo neuroscientifico in cui non si vince né si perde, non ci sono risposte giuste o sbagliate, ma permette di testare la capacità di concentrazione, la memoria, la valutazione del rischio, le inclinazioni emotive e le tendenze relazionali.

Aziende come Pymetrics hanno messo a punto una combinazione di attività che si completano allo schermo e offrono un’analisi neurocognitiva da confrontare con i benchmark che i vari dipartimenti delle risorse umane hanno stabilito per scovare profili interessanti. Il tutto dura circa una ventina di minuti. Chi passa anche questa fase di valutazione approda al colloquio, che però non avviene di persona, né con la solita chiamata via Skype. Le domande vengono inviate e il candidato può ascoltarle quando preferisce, per poi registrare davanti al monitor o a qualunque device mobile le risposte nel momento e nel contesto in cui si sente più a proprio agio. 

È in questa fase che entrano in azione i software per l’analisi facciale sviluppati da aziende come HireVue, punto di riferimento nell’applicazione dell’intelligenza artificiale ai processi di digitalizzazione del reclutamento professionale. La app di HireView analizza le risposte dei candidati, l’intonazione della voce, la sintassi, il lessico, le pause, le inflessioni, il movimento degli occhi, tiene conto della respirazione e dei silenzi, monitora le espressioni del viso, prendendo nota di tutti i micromovimenti e delle increspature del volto, impercettibili riflessi che, se opportunamente letti, offrono dati importanti non soltanto sul profilo della persona intervistata ma anche sul suo potenziale. Il settore delle risorse post-umane è orientato alla ricerca del talento che deve ancora fiorire, non soltanto di quello già sbocciato. Con una combinazione di brevetti originali per il riconoscimento facciale e licenze acquisite ordinate da fasci di algoritmi, HireVue offre una radiografia in movimento del potenziale professionale eseguita secondo i criteri richiesti dai clienti, impacchettata con tutti i servizi di contorno.

Loren Larsen, chief technology officer di HireVue, spiega che le persone che osservano un colloquio spesso sono concentrate su alcuni aspetti che li colpiscono dei candidati che hanno davanti. «È la natura umana, c’è poco da fare. Alla prima impressione, una persona può apparire attraente oppure repulsiva, noiosa o affascinante, ed è difficile liberarsi da queste impressioni in un dialogo che dura magari venti minuti. L’assunto di fondo su cui si basa il nostro servizio – spiega Larsen – è che queste impressioni non colgono i criteri giusti, spesso sono fuorvianti o ininfluenti rispetto allo scopo del colloquio, che è trovare la persona giusta per una certa funzione». 

Il linguaggio del candidato è studiato in ogni sfumatura

L’intelligenza artificiale, secondo gli sviluppatori digitali, può fare in modo più efficiente e obiettivo ciò che un reclutatore fa lentamente, in modo incompleto e oscurato da distrazioni e pregiudizi. Secondo la filosofia di HireVue, è anche una questione di fairness, di uguaglianza di opportunità: «Pensiamo che le nostre analisi facciano venire fuori il vero valore delle persone, che spesso è invisibile agli occhi umani in così poco tempo, e che dunque permetta a tutti di essere considerati in modo giusto». 

Ma come ci si può fidare di una macchina? E come la si costruisce? Per questo servizio, la programmazione a misura di cliente è fondamentale. «Mandiamo squadre di psicologi e analisti nelle aziende clienti per capire le risorse umane che profili cercano, come valutano il lavoro e in che modo giudicano il successo», ha spiegato Larsen. «In questo modo possono personalizzare il modello di screening, cioè educare le intelligenze artificiali a guardare ciò che è essenziale per loro».

Tra le migliaia di variabili da analizzare c’è, per esempio, il linguaggio del candidato. Usa il vocabolario tecnico del suo settore di attività? Predilige i verbi passivi o attivi? Dice più spesso ‘io’ oppure ‘noi’? Parla lento o veloce? Pensa prima di rispondere o parte di getto? Ha un tono robotico o accattivante? Queste sono solo alcune delle variabili. «Il fattore che complica l’equazione è che non ci sono caratteristiche di per sé negative e positive: dipende tutto dall’azienda e dal tipo di lavoro. Certe caratteristiche che sono ottime per una funzione, sono pessime per un’altra», ha spiegato Larsen. Se il candidato supera anche lo screening visivo dell’intervista, la sua pratica passa dalle mani degli algoritmi a quelle degli uomini. Un manager prende contatto con la potenziale risorsa e dà il giudizio finale sulla candidatura.

Le multinazionali si affidano alle macchine per reclutare

Questo è per sommi capi il processo di reclutamento seguito da Unilever che è stata una delle prime multinazionali a investire in modo massiccio sulla digitalizzazione delle risorse umane, specialmente per coprire le posizioni a livelli più bassi. Prima del 2016 il gruppo anglo-olandese, un colosso da 170 mila dipendenti, organizzava costose campagne di selezione nelle università, procedure che richiedevano investimenti ingenti e comunque permettevano di considerare soltanto poche gocce nell’oceano del talento da scovare e coltivare. Da quando ha delegato in gran parte all’intelligenza artificiale il percorso di reclutamento e analisi delle candidature, il volto dell’azienda è cambiato. 

Nel primo anno di sperimentazione Unilever ha vagliato soltanto in Nord America 30 mila candidati, il doppio rispetto a un metodo non digitalizzato. Il tempo medio dal momento del primo contatto a quello in cui l’azienda fa un’offerta è sceso da quattro mesi a quattro settimane, con un risparmio totale di 50 mila ore per i candidati e una decrescita del carico di lavoro per i reclutatori del 75%. Grazie all’ottimizzazione dei processi di selezione la percentuale dei candidati che arrivano all’ultimo stadio è cresciuta dal 64% all’80%, e anche il tasso di accettazione delle offerte è salito di circa il 20%.

Il risultato? È cresciuto in modo significativo il numero dei candidati non bianchi che sono stati scelti e gli algoritmi, opportunamente calibrati, hanno equilibrato il bilanciamento di genere. Unilever non è certo la sola azienda che ha scelto di usare in modo massiccio l’intelligenza artificiale nelle risorse umane. Goldman SachsJ.P. MorganWal MartHiltonUnder ArmourVodafoneMercedesBasfGeico e molte altre si avvalgono delle analisi di HireVue, combinandoli con altri servizi di digitalizzazione per navigare fra le onde della rivoluzione del settore delle risorse umane, fenomeno già in atto eppure ancora lontano dalla piena espressione del suo potenziale. A livello globale, infatti, soltanto il 9% delle aziende è attrezzato per l’era della “digital HR”. 

Corrispondente del Foglio dagli Stati Uniti. Ama, con il necessario distacco penitenziale, il Lambrusco e l'Inter. Ha scritto alcuni libri su cose americane e non, l'ultimo è "La Febbre di Trump" (Marsilio). Sposato con Monica, ha due figli, Giacomo e Agostino.