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I materiali più innovativi consentiranno di costruire infrastrutture sempre più solide e durature nel tempo. Al Politecnico di Milano si studiano i materiali del futuro.
I materiali più innovativi consentiranno di costruire infrastrutture sempre più solide e durature nel tempo. Al Politecnico di Milano si studiano i materiali del futuro.
Mentre a Genova e a Roma si discute della demolizione di quel che resta del viadotto Morandi crollato il 14 agosto scorso e si cerca di gestire l’emergenza sfollati, il grande archistar, Renzo Piano, presenta a tempo di record un progetto per una nuova infrastruttura facendone dono alla sua città, ferita al cuore. Un ponte avveniristico con piloni in cemento armato e impalcato in acciaio, che, promette Piano, durerà mille anni. Del resto, le tecnologie e soprattutto i materiali adottati oggi sono ben diversi da quelli usati negli anni Sessanta quando venne completato il ponte sul Polcevera. Ne abbiamo parlato con un esperto di innovazione, il professore Marco Imperadori, titolare della cattedra di Progettazione e Innovazione Tecnologica presso la Facoltà di Ingegneria Edile-Architettura del Politecnico di Milano, vera e propria fucina di progettisti ed esperti in costruzioni. Qui si è laureato lo stesso Piano, e qui lavora il professore Carmelo Gentile, docente di Tecnica delle Costruzioni noto per essere stato il primo a segnalare il «rischio tiranti» del grande ponte malato il cui crollo ha provocato 43 vittime.
«Innanzitutto – spiega Imperadori – io non sono un esperto di ponti ma vorrei partire da una considerazione evidente: il progetto di Piano, caratterizzato da piloni a passo più fitto, è strutturalmente meno ‘azzardato’ di quello di Morandi che è un ponte straordinario dal punto di vista del disegno architettonico ma che presenta delle pecche sul fronte della ridondanza; oggi non sarebbe logico farlo. Prima di analizzare i materiali è quindi doveroso guardare allo schema generale di un’opera di questo tipo: nel caso del viadotto Morandi la struttura, molto avveniristica, leggiadra, bella si affidava eccessivamente agli stralli che sospendevano le ampie luci. Quando si opta per una soluzione tanto spinta sarebbe stato opportuno prevedere un numero elevato di tiranti (ridondante appunto), di modo che vi sarebbero state risorse strutturali sufficienti a mantenere adeguati livelli di sicurezza».
Fatta questa premessa non si può non ricordare come sul banco degli imputati sia finito soprattutto il calcestruzzo ma anche in questo caso i distinguo sono doverosi. «Questo materiale – continua l’esperto – è nei fatti un’invenzione recente con appena un secolo di vita, poco più. C’è da dire, però, che il calcestruzzo precompresso che usiamo oggi è molto cambiato rispetto anche al recente passato. Per esempio, qui al Politecnico, sono in corso studi sull’uso di fibre di vetro (il gruppo del professor Marco di Prisco studia questi aspetti di notevole innovazione e ricerca ma anche il gruppo del professor Giovanni Plizzari dell’Università di Brescia) da utilizzare per rendere più resistente il conglomerato cementizio armato semplicemente o precompresso. L’obiettivo è quello di realizzare delle fitte ‘cuciture’ che evitino alle crepe di propagarsi. Una soluzione di questo tipo aumenta enormemente la leggerezza ma anche la resistenza all’ossidazione e alla corrosione».
Nel ponte di Piano, fatti salvi i piloni cementizi, si fa un largo uso di acciaio per l’impalcato, ovvero la parte sui cui transiteranno i mezzi. «Una scelta ottimale e al passo con i tempi – continua Imperadori – anche se va ricordato che questo materiale per durare nel tempo mantenendo inalterate le sue caratteristiche, deve essere adeguatamente protetto dagli agenti atmosferici. Si guardi alla Torre Eiffel. Interamente in ferro, è stata realizzata nel 1889, e avrebbe dovuto essere smontata dopo un breve periodo, al termine dell’Esposizione Universale. Invece ancora oggi è lì: pochi sanno, però, che viene totalmente ripitturata ogni sette anni con diverse tonnellate di vernice. Per evitare la corrosione la soluzione migliore è la zincatura a caldo accoppiata alla verniciatura ma, su opere di grandi dimensioni geometriche non è una soluzione praticabile. In Italia, però, è stato di recente realizzato un ponte sul Po, a Piacenza, caratterizzato da una struttura reticolare costituita da sezioni di ridotte dimensioni (aste) che, proprio per la loro compattezza, possono essere trattate con zincatura a caldo. Fondamentale, però, è poi l’uso di una verniciatura adeguata che non ha una semplice funzione estetica». Il trattamento a cui è stato sottoposto il ponte sul Po si chiama SISTEMA TRIPLEX®, ideato dall’azienda bresciana Nord Zinc, è composto da tre fasi che sfruttano anche le nanotecnologie: la prima consiste in un bagno di zinco a 450 gradi; quindi si passa a un pretrattamento con nanotecnologie ceramiche e infine si utilizzano vernici a polvere ad attrazione elettrostatica e poi fissate a forno. «Questi trattamenti sono sì più costosi, ma rendono possibile pianificare interventi di manutenzione anche oltre i 25-30 anni risparmiando nel lungo periodo. La zincatura a caldo – spiega Imperadori – insieme alla verniciatura, aumenta notevolmente la durabilità dell’opera. Corretta progettazione, uso di materiali adeguati e manutenzione programmata rendono un’infrastruttura davvero sicura e capace di durare nel tempo».
Un esempio straordinario di ponte per qualità e tecniche costruttive è il colossale viadotto di Millau, in Francia, realizzato dall’architetto britannico Norman Foster e dalla società Eiffage. «Il viadotto ha piloni alti più di 300 metri e la parte superiore in acciaio con forcelle da cui spiccano stralli fatti da trefoli d’acciaio speciale. Materiali moderni, manutenzione, sensori, cavi ridondanti: tutti elementi che consentiranno a quel ponte di rimanere in esercizio molto a lungo e di mantenere sempre un adeguato livello di sicurezza sono presenti».
Il futuro prossimo, secondo Imperadori, sarà anche all’insegna del carbonio: leggero e resistente ma molto costoso è largamente utilizzato per esempio nella realizzazione delle scocche delle auto di Formula Uno e in molta industria high tech. Negli ultimi anni, però, sta prendendo piede anche nell’edilizia. In questo settore il Giappone è all’avanguardia. L’archistar Kengo Kuma, famoso per aver progettato lo stadio di Tokyo, ha applicato, con la Komatsu Seiren, dei trefoli di carbonio, ovvero delle funi intrecciate per realizzare tiranti. «Kuma – conclude il docente – ha usato questi cavi, Cabkoma, anche per il rinforzo antisismico, proprio per adeguare la sede dell’azienda nipponica realizzata decenni fa in telai di calcestruzzo armato ai severi standard costruttivi giapponesi attuali. Una soluzione efficace ma anche bella da vedere. In futuro il carbonio sarà sempre più presente nelle nostre infrastrutture: già oggi, per esempio, è usato per rafforzare travi di legno deteriorate o ottenere prestazioni di sforzo notevolmente superiori all’acciaio stesso a parità di peso».