Basterà all’Europa l’Airbus delle batterie?

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Basterà all’Europa l’Airbus delle batterie?

Francia e Germania vogliono creare un colosso della produzione di accumulatori per veicoli elettrici ma lo sforzo multimiliardario rischia di essere inutile per ridurre il divario accumulato nei confronti della Cina.

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Francia e Germania vogliono creare un colosso della produzione di accumulatori per veicoli elettrici ma lo sforzo multimiliardario rischia di essere inutile per ridurre il divario accumulato nei confronti della Cina.

È un dato di fatto, ormai, che la Cina abbia raggiunto la leadership mondiale in molti segmenti della filiera dei veicoli elettrici. Si tratti di volumi di vendita, di numero di produttori, di dimensioni dei fornitori, l’ex Celeste Impero è riuscito ad accumulare un vantaggio rispetto all’Europa e agli Stati Uniti che difficilmente potrà essere colmato senza una strategia unitaria fatta di programmi di innovazione e massicci investimenti.

La Cina sta dominando soprattutto laddove vengono prodotte le componenti fondamentali di un veicolo elettrico: le batterie. Ed è qui che l’Europa sta cercando di dire la propria con un progetto di ampio respiro seppur per la solita iniziativa di matrice franco-tedesca. Francia e Germania hanno, infatti, deciso di unire le forze per sviluppare un’industria europea delle batterie tramite un’alleanza tra soggetti pubblici e privati. Per sostenere un progetto esplicitamente destinato a creare i presupposti per rompere il dominio dei produttori asiatici, sono stati stanziati tra i 5 e i 6 miliardi di euro.

L’UNIONE FA LA FORZA

L’obiettivo è oltremodo ambizioso: replicare il successo di Airbus, la società aeronautica nata nel 1970 dalla fusione tra diverse aziende francesi, tedesche, spagnole e britanniche e capace nel giro di pochi anni di dare filo da torcere al leader mondiale del settore, la statunitense Boeing. E infatti il progetto si chiama proprio “Battery Airbus”. L’idea è nata quasi 20 mesi fa all’interno delle discussioni tra funzionari dell’Unione Europea ma ha trovato il massimo supporto in Francia e Germania, che da tempo compongono l’asse propulsivo dell’intera struttura comunitaria.

Dalle dichiarazioni dei promotori emerge, tuttavia, un senso di urgenza per il ritardo accumulato. «È un passo importante nella lunga storia della nostra industria europea che dimostra che l’Europa non è destinata a dipendere dalle importazioni tecnologiche dalle due potenze che sono Stati Uniti e Cina», ha dichiarato il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, mentre per Maros Sefcovic, vicepresidente della Commissione europea con delega all’energia, «il tempo stringe se vogliamo che la nostra produzione europea vada a regime entro quattro o cinque anni».

Il progetto, sostenuto da 1,2 miliardi di sovvenzioni pubbliche e da 4 miliardi di investimenti privati messi a disposizione da 35 aziende dei settori automobilistico ed energetico, prevede l’inaugurazione nei prossimi mesi di una fabbrica pilota con circa 200 dipendenti ed entro il 2023 l’apertura di due siti produttivi, in Francia e in Germania ovviamente, con una forza lavoro di 3.000 persone. Anche altre nazioni si sono dette interessate a partecipare e tra queste figura anche l’Italia ed è proprio sulla possibilità di coinvolgere il maggior numero possibile di Stati che si fondano le speranze dei promotori per raggiungere in breve tempo un obiettivo produttivo decisamente ambizioso. È stato Peter Altmaier, ministro dell’Economa della Germania, a precisarlo: coprire entro il 2030 il 30% della domanda globale di batteria con “diversi siti di produzione”. Ciò significa che il Vecchio Continente dovrà, nel giro di dieci anni, moltiplicare di 30 volte la produzione di accumulatori visto che attualmente non arriva all’1%.

MEGAFABBRICHE

È comunque difficile che il traguardo venga raggiunto. Di certo, in giro per l’Europa, sono molti i progetti di mega-fabbriche per la produzione di batterie. Basti pensare all’impianto in fase di costruzione in Svezia per opera di ABB e Nothvolt, che l’anno prossimo, grazie a quasi 1,5 miliardi di euro di investimenti, dovrebbero aprire un impianto con una capacità di 32 GWh, a fronte dei 20 GWh della Gigafactory più famosa, quella della Tesla e della Panasonic in Nevada. La stessa Northvolt dovrebbe essere il partner della Volkswagen per una nuova fabbrica a Salzgitter, in Germania, mentre diversi produttori asiatici, dalla cinese CATL alle coreane LG ChemSamsung SDI e SK Innovation, sono pronti a individuare i siti per ulteriori impianti nel Vecchio Continente.

Insomma la carne al fuoco non manca, ma il rischio di andare incontro a una sconfitta rimane alto se allo stesso tempo non vengono messe in atto politiche per promuove la creazione di un ampio mercato. E in tal senso non va trascurato il fatto che il ritmo di adozione delle auto elettriche è ancora basso sia per mancanza di incentivi sia per l’assenza di iniziative per ampliare quella rete di colonnine di ricarica considerata vitale per imprimere un colpo di acceleratore ai volumi di vendita. Le Case automobilistiche stanno facendo la loro parte con massicci investimenti: si parla di oltre 250 miliardi stanziati solo dai produttori tedeschi per lanciare centinaia di modelli. Senza, però, politiche pubbliche onnicomprensive uno sforzo del genere rischia di essere vano e il ritardo accumulato rispetto alla Cina diventare incolmabile.

PRIMATO CINESE

Del resto i numeri parlano chiaro. Oggi la Cina è responsabile del 60% della produzione globale di celle agli ioni di litio, una percentuale che potrebbe anche aumentare alla luce delle iniziative messe in atto da Pechino sul lato della domanda e ancor di più su quello dell’offerta. Pechino non ha solo varato programmi per incentivare l’acquisto di veicoli a zero emissioni e l’istallazione delle colonnine ma ha anche imposto obblighi ben precisi ai produttori e allo stesso tempo promosso la produzione di batterie facendo leva sui punti di forza attuali del suo sistema manifatturiero.

Se oggi la Cina produce la maggior parte degli accumulatori si deve innanzitutto al semplice fatto che da decenni ormai è la fabbrica per eccellenza dell’elettronica di consumo. Il passo verso il dominio nelle produzioni di smartphone è stato breve. E breve è stato anche il passo che ha portato dalla produzione di batterie agli ioni di litio di piccola dimensione, per intendersi per i cellulari, a quella di dispositivi di maggiori dimensioni per i mezzi elettrici. Non si tratta solo di fattori legati a economie di scala e quindi capaci di compensare i crescenti costi del lavoro. La Cina ha avuto la forza e la lungimiranza negli ultimi anni per conquistare posizioni dominanti nell’intera filiera con quelle politiche di espansione internazionale che molti in Occidente hanno definito come imperialiste probabilmente per non ammettere le responsabilità del passato colonialismo. Basti come esempio quanto sta avvenendo in Africa dove Pechino ha ormai soppiantato europei e americani grazie a un programma di scambio che ha portato i cinesi a costruire infrastrutture e strutture produttive in cambio di un accesso privilegiato alle enormi riserve di materie prime dei Paesi sub-sahariani.

E questo senza dimenticare ulteriori punti di forza. La Cina può contare anche sulla maggior parte delle riserve di terre rare, il 38% dei giacimenti terrestri, e su questo dato ha fondato un’industria estrattiva e di raffinazione che si è andata ad ampliare anche ad altri elementi chimici fondamentali per i veicoli elettrici. Per esempio, il cobalto: come già rilevato da questa testata il 60% delle riserve è in Congo ma il 90% della capacità di lavorazione è in Cina.

Perché Pechino ce l’ha fatta e gli altri no? Fondamentalmente le terre rare non sono poi così rare come da definizione. Si trovano, anche in grandi quantità, in qualsiasi Paese del mondo, ma in Cina, nella corsa all’industrializzazione partita negli anni ’90 con Deng Xiaopeng, non hanno fatto caso a quanto tossica e distruttiva sia la loro estrazione e raffinazione. I cinesi hanno così costruito capacità produttive laddove altri hanno preferito abbandonare qualsiasi velleità a causa degli elevati costi collegati con la necessaria protezione dell’ambiente. Non solo. Una volta costruite capacità all’interno, i cinesi hanno iniziato a conquistare un pezzo alla volta anche asset all’estero per garantirsi approvvigionamenti sicuri. Non a caso la metà, e in alcuni casi anche di più, delle miniere di terre rare, siano esse in Congo o in Cile o in qualsiasi altro posto sperduto del mondo, sono in mani cinesi e lo shopping non è stato rallentato neanche dal freno imposto da Pechino agli investimenti esteri: sono loro ad aver sborsato oltre 7 miliardi di dollari per rilevare cave, miniere e siti estrattivi solo nel 2018 e non certo colossi “occidentali” come Bhp, Rio Tinto o Glencore.

Bisogna partire da queste considerazioni per capire come mai la Cina, oggi, controlli l’intera filiera dei metalli fondamentali per le batterie dei veicoli elettrici, a partire da litio, nickel e cobalto e sia riuscita a scavalcare gli Stati Uniti, dove gli odierni accumulatori per l’Automotive sono stati inventati, e a distanziare il Giappone o la Corea del Sud, ferme rispettivamente al 17% e al 15% della produzione globale nonostante possano contare su multinazionali del calibro della Panasonic o della Samsung.

E questo senza considerare le ripercussioni di quello che ormai è diventato il mantra del settore: produrre dove c’è mercato. Le Case automobilistiche sia tradizionali che “nuove” sono sempre più propense ad assemblare i loro veicoli elettrici vicino ai fornitori delle componenti più essenziali per ridurre i costi della logistica e degli approvvigionamenti. Bastino due esempi. La Dyson, azienda britannica nota per i suoi aspirapolvere ultra-innovativi, ha deciso di produrre auto elettriche ma per farlo ha scelto di spostare la sede a Singapore per avvicinarsi ai luoghi dove oggi si fa il futuro dell’elettrificazione. La Tesla sta per inaugurare a Shanghai una fabbrica non solo per aggirare i dazi sulle importazioni di veicoli ma anche per stare vicino al mercato e ai suoi principali fornitori.

Le conseguenze per il settore delle quattroruote sono state esemplificate da un tweet di Alberto Forchielli, imprenditore e partner fondatore del fondo Mandarin Capital Partners: «La gara per la supply chain delle batterie per i veicoli elettrici è persa, la Cina controlla la produzione di litio, cobalto e nickel nonché quella delle batterie stesse, con la fine del motore scoppio finisce il dominio occidentale del settore auto».

NUOVE SOLUZIONI

Se Forchielli abbia o meno ragione lo dirà la storia, ma intanto la realtà indica un divario dei Paesi occidentali probabilmente incolmabile. Anche gli Stati Uniti sono in ritardo ma possono contare comunque su un primato tecnologico sul fronte dello sviluppo dei software o nel campo della progettazione difficilmente aggredibile. L’Europa, invece, rischia di uscire dalla gara con le ossa rotte anche con i miliardi pubblici e privati attivati dall’iniziativa franco-tedesca. L’unica strategia possibile non è andare allo scontro diretto con la Cina ma aggirare l’ostacolo individuando nuove soluzioni. Alla luce dell’attuale gap accumulato sarebbe opportuno investire in modo massiccio nella ricerca per lanciare sul mercato soluzioni alternative alle attuali batterie. In Francia, per esempio, un maxiconsorzio composto dalla Saft del gruppo Total, dalle tedesche Siemens e Manz e dalle belghe Solvay e Umicore sta sviluppando una nuova generazione di batterie che elimini i problemi di surriscaldamento e autonomia di quelle attuali. Sarebbe il caso di seguire strade del genere invece di scontrarsi su un campo dove i cinesi sono oggi troppo grandi da affrontare. Con un’ultima avvertenza, comunque: senza programmi per favorire l’adozione tra i consumatori delle auto elettriche qualsiasi sforzo sarebbe inutile visto che i cinesi hanno capito da tempo quanto sia necessario agire sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda. A Bruxelles e dintorni, come più volte sostenuto dall’associazione dei costruttori Acea, non sembra l’abbiano ancora capito e continuano, ostinatamente, a non affrontare il problema con un approccio innovativo e sistemico. Il rischio è uno solo: la scomparsa degli europei, ossia degli inventori dell’automobile, dalla mappa geografica dei produttori automobilistici.

Giornalista da 11 anni, appassionato di auto da sempre. Dai numeri cerco di trarre insegnamenti, dalle parole uno sguardo sulle persone. Ogni volta che vedo passare un'Alfa del passato mi alzo il cappello. Guardo alle nuove tecnologie con entusiasmo e tanti dubbi. ​