Debito ecologico contro debito estero
Avete mai sentito fare ragionamenti sul debito ecologico? Per fortuna qualcuno che li fa c’è. «Dovete lavorare su questa parola: il debito ecologico». A dirlo è stato Papa Fr
La finanza sostenibile si trova di fronte a un bivio. Diventare mainstream ha fatto emergere profonde criticità che rischiano di minare la credibilità faticosamente conquistata.
In estrema sintesi, la situazione si può riassumere così: nessuno si fida più di nessuno. Ergo, c’è il reale e grosso rischio di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Parliamo della finanza Esg. Quella che dichiara di integrare nel processo d’investimento principi e criteri ambientali, sociali e di governance. Quella che dopo un lungo e tortuoso percorso ha vinto la sua battaglia, entrando come si dice nel mainstream. Ma che ora rischia di perdere la guerra se non riuscirà ad affrontare le tante, profonde criticità sotto il cui peso la sua credibilità rischia di restare schiacciata.
A tratteggiare in modo efficace i termini della questione è stata l’economista Mariana Mazzucato nel suo ultimo libro Il grande imbroglio. Oggetto del j’accuse non sono gli Esg ma le grandi società di consulenza. Gli Esg però ci sono. In particolare, viene dedicato loro un paragrafo che ne sintetizza i principali mali: mancanza di una definizione condivisa e di standard, eccessiva disomogeneità, incomprensibilità e lacunosità del sistema, rischio di opinion shopping (che si utilizzi cioè il modello di rating Esg più confacente ai propri obiettivi), assenza di regolamentazione, difficoltà intrinseca di quantificare con precisione in termini di mercato i rischi legati al clima.
Conclusione: mancano le condizioni necessarie perché l’impianto degli Esg possa funzionare, con conseguenti rischi di manipolazione. Ma c’è di più: l’utilizzo degli Esg inibirebbe l’azione normativa e regolamentare da parte dei governi, indispensabile al contrario su temi come la crisi climatica. Alla fine, insomma, gli Esg non sarebbero amici ma nemici della transizione ecologica. Non contribuirebbero a elevare l’etica del business, cioè a rendere più sostenibile il comportamento delle imprese. Semmai contribuirebbero al “business dell’etica”, al mercato della consulenza sugli Esg.
Tali conclusioni somigliano a quelle cui era giunto il “grande accusatore” della finanza Esg a livello mondiale, che infatti Mazzucato cita: Tariq Fancy, ex-direttore degli investimenti sostenibili di BlackRock, il più grande investitore privato del mondo. Nel 2021, negli anni in cui con le lettere agli investitori del suo Ceo, Larry Fink, BlackRock si era esposta moltissimo sui temi Esg, Fancy è uscito allo scoperto dicendo che: primo, la grande finanza di Wall Street usa gli Esg come paravento, perché il suo obiettivo resta il massimo profitto nel più breve tempo possibile; secondo, per affrontare questioni come la crisi climatica serve l’intervento dei governi. Il resto, Esg compresi, sono solo “distrazioni fatali”.
Un terzo personaggio di questa breve storia del tracollo della credibilità degli Esg è Elon Musk, patron di Tesla e uno degli uomini più ricchi del mondo. Un paio d’anni fa alla sua maniera ha messo dolorosamente il dito nella piaga che gli Esg si sono procurati da soli: «Gli Esg sono una truffa», ha tuonato su Twitter quando il titolo di Tesla era stato escluso dall’indice S&P 500 Esg, mentre fra gli inclusi c’era quello di Exxon. Al di là di ogni possibile distinguo su metriche o metodologie di analisi e valutazione alla base di tale risultato, francamente col metro invece del buon senso è difficile in questo caso non stare con Musk: appare una mission impossible, infatti, giustificare come Tesla, alfiere della mobilità elettrica nel mondo, non abbia credenziali Esg sufficienti per stare in un indice in cui invece trova posto Exxon. Specie considerando che la crisi climatica è la più grande emergenza che l’umanità abbia mai affrontato e che le fossili, responsabili di oltre il 75% di tutte le emissioni di gas serra e di quasi il 90% delle emissioni di CO2 – e core business di Exxon -, ne sono la principale causa.
Musk nel suo tweet aveva aggiunto che gli Esg sono usati come arma da «falsi guerrieri della giustizia sociale». Ed è anche da lì che è partita l’onda, temibilissima, che continuerà probabilmente a montare almeno fino alle elezioni presidenziali Usa di fine 2024, del cosiddetto “Esg backlash”: la reazione violenta contro gli Esg da parte di ambienti della destra repubblicana statunitense. Che accusano gli Esg di essere espressione del “woke capitalism”, di strizzare l’occhio a cause sociali e in generale a un’agenda politica progressista. È accaduto così che diversi Stati americani abbiano legiferato per mettere di fatto al bando gli Esg. Ad esempio, perché per molti dire sì agli Esg implica dire no agli investimenti in petrolio e gas, settore in cui gli Stati Uniti sono il primo produttore al mondo, per cui guai a remare contro!
Ad aggiungere il carico sono arrivate in numero crescente in questi anni indagini condotte da Ong “watch dog” della finanza Esg, investigazioni delle authority dei mercati, litigation. Che hanno portato alla sbarra, multato, messo alla berlina pezzi da novanta della finanza mondiale, accusandoli in pratica di fare greenwashing con gli Esg.
Come se ne esce? Probabilmente con una molteplicità di azioni, coordinate, su vari fronti, per sviluppare antidoti capaci di curare le criticità evidenti della finanza Esg che hanno fatto da terreno fertile per i virulenti attacchi politici. L’Ue potrebbe fare da guida in questo senso, in virtù dell’articolato piano d’azione sulla finanza sostenibile varato nel 2018 che in questi ultimi anni ha cominciato ad essere messo a terra. Ma ci vuole coerenza, altrimenti siamo punto e a capo.
La tassonomia dei settori e attività sostenibili in cui investire, ad esempio, che sta al cuore di quel piano, è stata messa pesantemente sotto accusa, tacciata essa stessa di greenwashing e di essere il frutto di pressioni, anche qui, politiche (specie per il contestatissimo inserimento in tassonomia di nucleare e gas, che ha dato origine persino a contenziosi legali). Inoltre, anche uno dei primi tasselli andati a regime nell’ambito del piano, la SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation), è stato di fatto considerato dal mercato come una label, un’etichetta, ma non lo è affatto: un gigantesco misunderstanding (chissà quanto frutto del caso e quanto invece voluto da chi magari, in finanza, è allergico a etichette e certificazioni) che ha alimentato altre feroci accuse di greenwashing. Che dire, poi, della sempre più forte spinta bellicista soprattutto in Europa che vuole includere gli investimenti in armamenti e in generale nella difesa nello spettro della finanza Esg? Mentre è arcinoto che sono fra i settori moralmente controversi e quindi esclusi da sempre, senza se e senza ma, dalla finanza etica (almeno prima che si prendesse a chiamarla sostenibile o Esg, che evidentemente non sono affatto la stessa cosa)?
Riprendendo la sollecitazione di Fancy e Mazzucato, è a Stati e governi che tocca prendere il toro per le corna – il mercato ha dimostrato di non saperlo o volerlo fare – mettendo in riga una buona volta la finanza. “Costringendola” a impegnarsi in modo concreto, verificabile, incisivo, a dimostrare di voler avere un impatto reale sui giganteschi problemi che abbiamo di fronte, a partire ovviamente dalla crisi climatica. Un piccolo esempio, visto che si parlava di label: è prevista in futuro (equilibri del parlamento Ue che uscirà dalle elezioni di giugno permettendo) la Ecolabel europea per i fondi sostenibili retail. Da marzo, in Francia (principale mercato europeo e mondiale della finanza Esg), la Label ISR ha escluso le fossili dagli investimenti dei fondi che vogliono certificarsi: sarà lo stesso in Europa? O ci saranno ancora distinguo ed eccezioni, che creeranno disomogeneità, confusione e presteranno di nuovo il fianco al greenwashing e a chi vuol cavalcarlo politicamente?
Il rischio, altrimenti, è che gli Esg saranno ricordati più che altro come una “distrazione”, o magari persino un imbroglio, e destinati a morire per conclamata inefficacia. Solo che nessuno ci avrà guadagnato, ci avremo rimesso tanto tutti: una distrazione davvero “fatale”.