Datacrazia: come cambia la società

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Datacrazia: come cambia la società

Il governo, la gestione dei corpi, e ormai forse pure delle menti, negli spazi fisici e virtuali è in mano ad algoritmi. Non è impensabile che un giorno tutto sarà automatizzato, politica compresa. Nella direzione della datacrazia.

Il governo, la gestione dei corpi, e ormai forse pure delle menti, negli spazi fisici e virtuali è in mano ad algoritmi. Non è impensabile che un giorno tutto sarà automatizzato, politica compresa. Nella direzione della datacrazia.

Qualche tempo fa ho ipotizzato che in un mondo permeato da Big Data il passo dalla democrazia alla datacrazia, di un sistema senza più governanti dove gli algoritmi ci consiglieranno cosa fare, può essere davvero il futuro. Evidentemente la mia era solo un’ipotesi ed è stata una provocazione, ma non è qualcosa su cui scherzare. Se ci pensate bene fondamentalmente stiamo già delegando le nostre capacità cognitive (e pure emotive) ai sistemi d’intelligenza artificiale. Ormai sono gli algoritmi a governare il mondo. Programmare, governare, più o meno è la stessa battaglia. La datacrazia è il governo o, meno drammaticamente detto, la gestione dei corpi, e ormai forse pure delle menti, negli spazi fisici e virtuali. Non è impensabile che un giorno tutto sarà automatizzato, politica compresa.

Quale tipo di società ne deriva? La domanda non è banale perché non possiamo fare un paragone con epoche del passato. L’unica possibilità che abbiamo per cercare delle risposte è osservare le organizzazioni delle società animali, come le formiche, le ape, gli storni. Tutte queste specie sono composte da una quantità variabile di unità individuali che rispondono strettamente a un ordine di gruppo. Lo so che non è piacevole come esempio. Noi teniamo ancora molto, e probabilmente non lo faremo ancora a lungo, alla nostra unicità. Ma credo che questa proprietà assoluta di noi stessi sia condannata a sparire. Se guardiamo alle nuove generazioni sono già oggi meno preoccupate della loro privacy.

Se ci pensiamo bene, oggi la maggioranza dei dati che troviamo in Rete vengono trasferiti all’intelligenza artificiale in modo inconsapevole, o quantomeno distratto, da noi stessi attraverso Google, i social network ma anche tutti i siti dove facciamo acquisti, viaggiamo e così via. Noi diamo le informazioni e le macchine programmano. Siamo dunque prigionieri di noi stessi? Si potrebbe dire così dal punto di vista della persona fisica. Ma non è una vera prigione. È un’estensione della persona fisica nel virtuale. Ormai occupiamo tre spazi: fisico, mentale e virtuale. Per tutti noi lo spazio fisico e quello mentale coincidano. C’è un unità naturale tra queste due dimensioni e il punto di partenza della coscienza e quello dei sentimenti è lo stesso. Non abbiamo ancora ben capito che la nostra presenza, i nostri profili, i dati accumulati su di noi e da noi, tutte cose che hanno un rapporto identitario con noi stessi, sono estensioni di noi stessi. Il problema non è di essere prigioniero di se stessi, una circostanza che è moltiplicata dal virtuale, ma abusare delle informazioni

E se l’algoritmo alla fine siamo noi, questo non vuol dire che Internet ci ha fatto diventare stupidi. Al contrario, siamo intelligenti, ma in un modo diverso, aumentato, condiviso, ipertestuale. Su internet così come negli algoritmi evidentemente c’è la stessa intelligenza che c’è nella realtà, è soltanto classificata in modo diverso. La chiamo intelligenza connettiva e non penso solo all’associazione di persone che lavorano o si divertono assieme, ma anche all’intelligenza delle connessioni proprie. La connettività di Snapchat non è la stessa di quella di Facebook o di Twitter, per dire, e niente dell’intelligenza connettiva è essenziale per sistemare gli algoritmi. Le deduzioni dell’intelligenza individuale sono già moltiplicate dalla partecipazione di più persone, e lo saranno ancora di più con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.

​La Rete ricorda per noi​

La Rete conserva, perché ricorda tutto, ma questo ha disabituato noi a ricordare. La mia memoria è già persa dentro al mio smartphone. Il ricordo delle esperienze, non delle cose o degli eventi è quella che resta. La datacrazia, dunque, presuppone una nostra assenza di memoria?

La domanda è pertinente. La resistenza delle individualità contro l’ordine sociale e contro il potere qualunque sia, politico, istituzionale o algoritmico dipende non solo delle esperienze vissute, ma dai numerosi riferimenti che ciascuno valuta e contrasta a seconda della personalità. Però, adesso la personalità e la memoria si costruiscono fuori del corpo, sulla Rete, sulle banche dati. In questo senso, quindi, la perdita di memoria ci rende tutti più vulnerabili.    

Oggi, la maggior parte dei giovani non ha problemi a dichiarare che un fatto non esiste se non si trova su Google. Questo è un esempio di questa nuova memoria connettiva, condivisa. O, piuttosto dovrei dire, questo è un nuovo contenuto della memoria; la confusione nasce anche a livello di lessico della memoria: si fa confusione fra processo e prodotto, solo l’animale ricorda, la macchina no. È chiaro che la realtà come la conosciamo, o pensiamo conoscerla, sparisce quando scompare il riferimento. Non è il fatto da solo la questione, ma la realtà propria.

Una volta ho definito Facebook il “giornale del presente assoluto” che, esattamente come accade con gli algoritmi che guidano le nostre scelte di acquisto, generiamo noi, con post e commenti. Il presente assoluto è la condivisione ad ogni costo, anche a costo di digerire notizie false. Il problema è proprio li. La velocità dell’apparire della notizia rende praticamente impossibile la verifica immediata o ponderata del fatto. Nell’era della “verità alternativa” la famosa triade del segno, immaginata da Ferdinand de Saussure, è ridotta a un duo, quello del significante e del significato. Non c’è più necessità del referente. Per questo la crescita esponenziale delle fake news rende i confini tra il fatto e il riferimento al fatto sempre meno discriminante. Come diceva già il poeta T.S. Eliot “Il genere umano non può sopportare troppa realtà” (Burnt Norton – Four Quartets).

 A chi mi chiede se la datacrazia possa mettere anche in discussione il nostro libero arbitrio, rispondo che il libero arbitrio è un’invenzione, utilissima, concedo, della cultura letterata, fondata sull’illusione che la persona si contiene e si ferma nel corpo. Ma la situazione sta cambiando con la Rete. Adesso anche i nostri pensieri sono a rischio d’invasione. Si dice che esistono prototipi di sistemi che permettono di seguire e registrare il corso delle nostre emozioni di lettura, riga dopo riga, su device come Kindle o Kobo. Di nuovo, la nostra libertà consiste nel prendere coscienza e atto della nuova dimensione estesa dal virtuale. Lo spiega molto bene Yuval Noah Harari, per superare la macchina, basta affermare il nostro essere: «Se tutto questo non vi piace e volete rimanere fuori dalla portata degli algoritmi, forse c’è solo un consiglio che posso darvi, un vecchio trucco: conosci te stesso. Dopotutto è un dato di fatto: finché vi conoscerete meglio di quanto non vi conoscano gli algoritmi le vostre scelte saranno ancora superiori alle loro e continuerete ad avere una certa autorità, ma se gli algoritmi sembrano sul punto di prendere il sopravvento, il motivo principale è che molti esseri umani non si conoscono per niente».

Non credo che la nostra identità sia a rischio. I corpi sono e saranno sempre separati, diversi e fisicamente autonomi e per questo da identificare separatamente. A rischio c’è la cosiddetta privacy e l’illusione della nostra indipendenza dall’ambiente, sia personale, immediato, contestuale, sia globale. Inoltre è quasi certo che i governanti saranno anche loro governati dai Big Data. La loro presenza è solo una tappa intermediaria prima della loro totale sparizione.

È​ considerato l’erede intellettuale di Marshall McLuhan. I suoi concetti di “brainframes” e “intelligenza connettiva” sono al centro del dibattito su cultura, arte ed economia. È autore di numerosi testi su tecnologie, web e connettività. ​