La scelta difficile dell’Armadillo

Society 3.0


La scelta difficile dell’Armadillo

La coscienza di Zerocalcare viaggia sul territorio impervio della politica senza perdere di sincerità. Perché la cosa pubblica è solo un pretesto e non c’è alcun messaggio sottostante.

A un certo punto di Questo mondo non mi renderà cattivo, seconda serie Netflix firmata Zerocalcare dopo Strappare lungo i bordi del 2021, l’Armadillo che fa da ingombrante e spietata coscienza/personal coach spirituale dell’alter ego dell’autore Michele Rech, fa notare con la voce sorniona di Valerio Mastandrea che Zero è un campione del mondo nella specialità del complicarsi la vita. Fa tutto perfettamente e poi, zac, all’ultimo riesce sempre a inimicarsi qualcuno o a fare una scelta sbagliata, conseguenza di insicurezza o di un eccesso di zelo nella sincerità. Un rischio che colui che da un decennio è il più famoso, venduto, premiato e citato fumettista italiano ha forse scelto consapevolmente di correre in questa occasione. Se infatti la storia dolce e amara raccontata in Strappare lungo i bordi parlava a tutti, e tutti – non solo i millennial ormai sulla quarantina che costituiscono i lettori d’elezione di Zerocalcare – potevano riconoscervisi, in questa nuova serie sceglie un taglio decisamente e dichiaratamente politico, con il pericolo (risultati elettorali alla mano) di giocarsi le simpatie del pubblico mainstream che poteva essersi incuriosito con il precedente capitolo. E non solo quello, perché nella posizione in cui si trova oggi Rech, c’è anche la possibilità di essere bersagliati forse ancora di più dal “fuoco amico”.

Il successo che anche questa volta ha incassato Zerocalcare è una dimostrazione non solo del suo talento narrativo, dell’inventiva visiva e linguistica che riesce a mettere in scena nelle sue storie, della profonda empatia che suscita nei confronti dei suoi personaggi e che riflettono quella dell’autore nei confronti del  microcosmo umano che lo circonda (gli abitanti di un quartiere periferico di Roma Est, tratteggiato con la grazia, l’attenzione ai dettagli e la verve fantastica di un Pennac capitolino), ma anche della sua capacità di camminare sul filo. O se si preferisce, su quella sottile linea rossa che divide l’impegno e la fedeltà ai propri ideali dalla accettazione di massa e dalla mercificazione, l’ispirazione genuina dalla tentazione (comprensibile, visti i risultati) di ripetere una formula ormai consolidata.

In effetti, il tema al fondo di Questo mondo non mi renderà cattivo è proprio questo, laddove quello politico è tutto sommato un pretesto anche se tutto apparentemente vi gira intorno. La serie inizia con Zero e i suoi amici che abbiamo imparato a conoscere (il suo ”pilastro morale” Sarah, il Secco perennemente affamato di gelati ecc.) portati in commissariato dopo un presidio antifascista e conseguenti disordini. Da qui la vicenda viene raccontata virtuosisticamente a ritroso, attraverso la testimonianza (logorroica, nevrotica, divagante e sempre comicamente irresistibile) di Zero ai poliziotti. Scopriamo così che tutto nasce dalla presenza di una trentina di migranti nel quartiere, contro la quale si mobilitano i soliti comitati cittadini sobillati da razzisti conclamati di estrema destra (che vengono sempre chiamati “nazisti” e mai “fascisti”: il perché verrà spiegato con un ragionamento di mirabile ed efficacissima sintesi). Tra questi anche un vecchio amico d’infanzia del protagonista, un ragazzone manesco ma in fondo di buon cuore chiamato Cesare, appena tornato dopo aver passato quindici anni in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Non anticipiamo altro a chi verrà vederla, ma l’aspetto più interessante non sta tanto nella trama quanto nel meccanismo grazie al quale questa offre a Zero (e a Rech) l’occasione di svolgere ragionamenti e riflessioni tutt’altro che banali, consolatorie o ideologicamente schematiche.

Il tema dell’amico che ricompare trasformato, solitamente sotto sembianze politiche inquietanti, è un tòpos abbastanza comune (si pensi a film come This is England o romanzi come Il circolo chiuso di Jonathan Coe), ma nel caso di Questo mondo non mi renderà cattivo è solo una delle leve narrative che permettono di aggirare la scontata dicotomia buoni/cattivi. Certo: l’antifascismo e l’antirazzismo rimangono valori non negoziabili, ma il mondo è molto più complicato di come appare. Il mondo di periferia in cui Zerocalcare ambienta da sempre le sue storie (quelle periferie di cui tutti si riempiono la bocca durante le campagne elettorali e che tutti, regolarmente, lasciano poi al loro destino di degrado) ancora di più, forse. E impressionano la lucidità e l’onestà con cui vengono fatte emergere le contraddizioni, gli intrecci esistenziali profondi, le piccole e grandi miserie di chiunque (anche di chi si ritiene “buono” e “giusto” per definizione). Quelle dell’autore in primis. Come ha dichiarato più volte a proposito di questa e di altre sue opere, il concetto è che “o ci si salva insieme, o non si salva nessuno”. E in quell’”insieme” ci siamo noi, i migranti, i disperati di ogni tipo ma anche i Cesare e i razzisti-per-caso, per ignoranza o per mancanza di alternative.

Appaiono quindi ampiamente fuori fuoco e preconcette alcune critiche mosse a Rech. Alcune prevedibilmente da destra, ma molte anche dalla parte opposta: Zerocalcare venduto al colosso dell’intrattenimento in streaming, Zerocalcare che si ripete, Zerocalcare che ha fatto i soldi e si lava la coscienza con la comoda scusa dell’antifascismo (a cui va aggiunta la postilla “di maniera”, perché si sa che il mio antifascismo è sempre migliore del tuo). Sono critiche per l’appunto ingenerose, perché quello che in realtà fa l’autore in questa serie – ancora più che in passato – è un continuo mettersi in discussione, in una sorta di auto-analisi condotta attraverso un raffinato gioco di specchi che ne sottolinea la maturità.

Nel corso della storia, Zero viene invitato in un becero talk show televisivo e si pone il dilemma se non andarci oppure andarci e parlare della questione dei migranti nel suo quartiere. È esattamente la stessa aporia che nella realtà ha forse fatto venire qualche scrupolo a Michel Rech: finire su Netflix è una svendita del suo passato militante e underground o un’occasione per raccontare il proprio punto di vista e il proprio mondo a un pubblico ancora più ampio di quello che aveva già saputo conquistarsi? Ha prevalso la seconda opzione, e meno male.

Del resto, la forza di Zerocalcare sta proprio nel non avere messaggi da lanciare ex cathedra. Se non quello che invita a conoscersi meglio, a non farsi sconti davanti allo specchio, a saper riconoscere le sofferenze e i traumi degli altri e accettarli così come sono. Anche di quelli che non ci piacciono. Ma tutto ciò, per fortuna, sempre sul filo di una comicità e di un senso del ritmo (non c’è un solo momento a vuoto in più di due ore) straordinari. Come sempre, l’onnivoro immaginario pop di Zerocalcare (in gran parte generazionale, ma non solo) la fa da padrone e le citazioni si susseguono freneticamente: da Stranger Things a Downton Abbey, da Titanic a Sailor Moon, da Euridice e Orfeo ai videogiochi degli anni 90, da Guerre Stellari ai Teletubbies e Paolo Bonolis. Per finire con il tormentone che anche questa volta chiude la storia, e che pensandoci bene dovrebbe chiudere qualunque storia: “s’annamo a pijà er gelato?”.

*Credit fotografia: Cortesy Netflix

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​