Spotify e l’affare Neil Young

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Spotify e l’affare Neil Young

Il caso del podcast no vax è la punta di un iceberg che vede gli artisti contro le piattaforme di streaming. Ma la musica non può fare a meno del digitale.

​​Se lo chiamano “cavallo pazzo” c’è un motivo. Non sorprende quindi, che sia stato proprio Neil Young, con la sua consueta irruenza al limite del suicida, a far esplodere un caso che potrebbe avere ripercussioni epocali – condizionale d’obbligo, perché c’è anche la possibilità che alla fine rimanga una pioggerellina sull’oceano – riguardo il rapporto tra i musicisti e le piattaforme di streaming (prima tra tutte Spotify), così come sulla reputazione di quelli che sono prima di tutto enormi conglomerati hi tech e solo in seconda battuta strumenti che favoriscono la diffusione della musica.

I fatti, per cominciare. Spotify ospita un podcast di enorme popolarità – undici milioni di follower a puntata – condotto da Joe Rogan, ex stand up comedian e intrattenitore, nel quale si fa una chiara propaganda no vax, con contorno di complottismi vari e una impostazione neanche tanto mascherata di estrema destra. Lo show era già stato criticato in passato da Anthony Fauci, e recentemente 270 medici e scienziati hanno firmato un appello in cui chiedono a Spotify di vigilare sui contenuti ad alto tasso di disinformazione anti-scientifica propagati da Rogan.

A far da detonatore è stato però l’ultimatum posto a Spotify da Neil Young (che sulle questioni sanitarie, così come su molte altre, è intransigente: soffre di epilessia, ha contratto la poliomielite da bambino e ha due figli nati con menomazioni cerebrali): o eliminate il podcast dal vostro “palinsesto”, oppure me ne vado io. La (non) risposta di Spotify equivale a un “prego, mr. Young, si accomodi”, di conseguenza l’artista canadese ha mantenuto la parola togliendo dalla piattaforma i suoi album (non tutti, in realtà: solo quelli su cui può esercitare ancora un diritto di proprietà, avendo venduto metà del suo catalogo, seguendo le orme di Bob Dylan e altri grandi nomi del rock e del pop, al colosso Hipgnosis).

​Pochi giorni dopo la vecchia amica e connazionale Joni Mitchell ha annunciato di voler fare lo stesso, plaudendo apertamente alla scelta di Young. Probabile che altri seguiranno l’esempio della coppia di miti della Woodstock generation, ma soprattutto si è innescato un movimento anti-Spotify sui social con la conseguente corsa ad annullare il proprio abbonamento alla piattaforma (che a un certo punto ha persino sospeso la possibilità di cancellare il proprio account).

Ancora presto per valutare i possibili effetti a cascata della questione. Per quanto figure leggendarie e carismatiche, Young e Mitchell sono artisti intorno all’ottantina, con un pubblico ampio e fedele ma – almeno nei freddi report numerici sulla quantità di ascolti – quasi irrilevante rispetto a quello di una band di pop coreano a caso, di centinaia di rapper, trapper e svariati idoli giovanili apparentemente intercambiabili tra di loro. Ma più che altro, imparagonabili in termini di accessi all’idolo no vax Joe Rogan.

​Per avere il suo spettacolo negazionista in esclusiva, Spotify gli ha firmato un assegno da cento milioni di dollari: facile ipotizzare quale possa essere il ritorno garantito dal podcast. Qualcosa che svariati milioni di ascolti di Harvest non vedono neppure con il telescopio (e che d’altra parte a Neil Young rendono poco più che noccioline: l’equivalente di un milione di ascolti in streaming, in termini di guadagno di un artista, è circa tremila dollari).

Libertà di espressione e capitalismo digitale

La faccenda, pur con i suoi risvolti anche divertenti (premio per l’auto-ironia al cantautore James Blunt, che ha twittato: “Se Spotify non elimina il podcast di Rogan, minaccio di pubblicare un disco nuovo”), presenta una certa quantità di spunti di riflessione. Dall’eterno dilemma sulla libertà di espressione alla volatilità di un capitalismo impazzito (nei giorni successivi all’ultimatum di Young, Spotify ha perso tra i due e i quattro miliardi di valore sul mercato azionario), per arrivare al ruolo delle corporation digitali nate come mezzi “socializzanti”, orizzontali e democratici (l’arrivo dello streaming legale un decennio fa venne salutato con gioia dai musicisti, all’epoca terrorizzati dal download pirata) e trasformatesi in mostri tecnologici onnicomprensivi con un peso enorme nella gestione delle informazioni, della cultura, delle relazioni e in definitiva delle nostre vite. In questo senso, Spotify è una case history da manuale e il suo boss, Daniel Ek, il villain perfetto. Alla fine del 2021, come se già non si fosse reso abbastanza simpatico con il modo sprezzante e arrogante con cui risponde alle rimostranze degli artisti giustamente scandalizzati dall’elemosina che viene loro elargita, ha dichiarato di voler investire in aziende produttrici di armi. La querelle Neil Young/Joe Rogan potrà (forse) essere assorbita senza traumi eccessivi, e del resto si sa che i boicottaggi ai mega-brand fanno il solletico, ma ha definitivamente tolto il velo sulla vera natura di Spotify.

E qui sta il punto più interessante: oggi Spotify non è più, se mai lo è stata, un servizio per avere “tutta la musica del mondo a portata di smartphone”, come vorrebbe la retorica pubblicitaria. È diventato invece un gigantesco content provider, una specie di rete generalista 3.0 per la quale i contenuti audio extra-musicali e nella fattispecie i podcast costituiscono il vero core business e la principale fonte di guadagno. Il tipo di ascolto legato ai podcast, e in particolare a quelli così chiaramente identitari e politicamente connotati come quello di Rogan, favorisce la fidelizzazione degli ascoltatori (e quindi dei sottoscritori di abbonamenti) molto più di quanto possano fare gli album di Neil Young o di chiunque altro (eccetto forse Adele o Ed Sheeran). Anche per questo Ek aveva letteralmente strigliato gli artisti spronandoli “a pubblicare più musica se vogliono guadagnare di più”, come se l’ispirazione arrivasse a comando. Per questo motivo preferisce tenersi la disinformazione para-fascista di Joe Rogan piuttosto che un vecchio leone della controcultura rock’n’roll. Con il paradosso che il 99% dei musicisti presenti su Spotify guadagnano 0,0043 dollari per ogni ascolto di un loro brano – a parte casi eccezionali come è accaduto a Mamhood e Blanco ultimi vincitori del Festival di Sanremo che sono diventati i più streammati al mondo con il brano Brividi – ma allo stesso tempo rappresentano, proprio per il fatto di stare sulla piattaforma, una granellina nell’ingranaggio che permette a Rogan di intascarsi cento milioni di dollari sostenendo che i vaccini sono il male durante una pandemia devastante. Che il re fosse nudo lo si poteva sospettare da tempo, ma va riconosciuto al vecchio cavallo pazzo canadese di aver posto la questione come nessun altro finora aveva osato fare.​​

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​