Perché l’isolamento forzato ha generato un iperattivismo domestico, non solo digitale, e il bisogno di riti collettivi. Changes ne ha parlato con il sociologo Francesco Morace.
Lo
stop improvviso della vita che eravamo abituati a vivere poteva precipitarci inesorabilmente nel mondo degli animali, con le giornate che scorrono lente e sempre uguali in cui ci si sveglia, si mangia, ci si lava, si dorme, si mangia, si dorme. Ma, come ricorda
Francesco Morace,
sociologo e saggista,
presidente di Future Concept Lab e ideatore del
Festival della crescita, «già Aristotele ci aveva spiegato che l'uomo è sì un animale, ma un animale sociale, all'ennesima potenza. Noi
sentiamo il bisogno di stare con gli altri, di essere riconosciuti dagli altri. Era sbagliato, come magari qualcuno aveva fatto prima dell'emergenza sanitaria, pensare di essere degli dei: siamo degli
animali sociali».
Rinchiusi nelle proprie case, gli italiani, quindi, hanno da subito dimostrato un iperattivismo domestico, una incapacità di stare fermi e il bisogno di riti collettivi per compensare l'isolamento forzato capitato da un giorno all'altro.
All'interno delle quattro mura domestiche le
donne hanno preso le redini del comando in famiglia, stilando tabelle con orari precisi per ricostruire, in qualche modo, la routine classica di tutti («faccio ogni giorno una daily schedule per ogni figlio. Loro sono abituati ad avere impegni tutto il giorno. E così la giornata scorre fluida», dice una tipica signora milanese): pulizie di casa, studio, cucina, lavoro a distanza, videolezioni di yoga, tutorial per fare il pane, la pasta, la pizza in casa, incontri in chat con i compagni di classe dei figli, aperitivi digitali, momenti di socialità sui balconi, dirette Instagram, visite guidate virtuali ai musei o al sistema solare, corsi di inglese.
Chi mai avrebbe detto, solo poche settimane fa, che i
balconi sarebbero stati il nostro
unico
mezzo di comunicazione fisica col mondo: dj set di canzoni popolari urlate al cielo, applausi per medici e infermieri, preghiere, torce, brindisi da un caseggiato all'altro, piste da ballo, tutto su quei pochi metri quadrati che fino all'altro giorno usavamo come deposito per quella cyclette ora riscoperta (e che usiamo per fare spinning), o che, nella migliore delle ipotesi, erano pieni di vasi con piante e fiori dalla salute precaria. «Nella cultura italiana la
convivialità non è banale, altre culture non hanno lo stesso tasso di convivialità. E, secondo me, questo è anche uno dei motivi della alta diffusione del
coronavirus proprio qui da noi. Perciò, in queste settimane, assistiamo a un cambiamento importante nei comportamenti ma non nei valori. I balconi, i riti collettivi, sono una risposta veloce e chiara al bisogno di convivialità e di relazione a cui non possiamo rinunciare», sottolinea Morace.
Poi
ci sono i social, il
mondo digitale, che ci sta facendo sopravvivere. Un
black mirror che mai come in questi tempi emergenziali è invece diventato un
golden mirror per tenere i contatti con i parenti, gli amici, il lavoro, per informarsi, svagarsi, passare il tempo: riunioni via Skype, smart happy hour via meetup alle 18, videochiamate coi nonni, feste di compleanno in chat, e una onda creativa incredibile nella produzione di video ironici per esorcizzare la paura. «So addirittura di gruppi di appassionati al Fantacalcio - racconta Morace - che si sono accordati su regole per proseguire il campionato anche a Serie A ferma. Si sono inventati una competizione che simula quella vera».
Le lezioni da trarre da questa situazione così strana sono almeno due: si riscopre l'importanza dell'uomo; si capisce che la
tecnologia non è nemica, anzi,
ci salva la vita.
Come ammette
Vittorio Colao, ora
special advisor
della società inglese di private equity General Atlantic, e in precedenza amministratore delegato di tutto il
gruppo Vodafone e di
Rcs Media Group, «aziende che, e anche io per primo sono consapevole di questo, fino a fine febbraio parlavano di algoritmi, di robot, di automazione, stanno velocissimamente comprendendo di nuovo
l'importanza delle persone, del fattore umano, di pagare bene le persone, di dare l'assicurazione sanitaria, di occuparsi di come stanno e di aiutarle a fare in remoto quello che facevano prima in ufficio. Da questa crisi usciremo con una rivalutazione delle persone, nei loro ruoli nelle istituzioni e nelle aziende».
Da un punto di vista sociologico «è interessante notare come ci sia stata una reazione incredibile, come se fossimo stati per 20 anni in una bolla, in cui era stato detto che dovevamo pensare solo ai nostri interessi, che dovevamo isolarci. E invece - prosegue Morace - ora è esploso tutto, è successo in due settimane, con una velocità e una profondità pazzesche. Era qualcosa di latente, che nessuno aveva il coraggio di dire, come se ci fosse
un retropensiero inespresso. E ora siamo tutti d'accordo su questa cosa:
abbiamo bisogno gli uni degli altri, il fattore umano è insostituibile. E alla fine di tutto, non si tornerà come prima. Si ripenseranno i paradigmi del nostro esistere, della nostra vita quotidiana. È stata una sveglia collettiva in cui si capisce cosa è il bene comune, viviamo in una situazione unica: qui è stato toccato il tema della salute in tempo di pace, c'è la responsabilità di ciascuno di noi nel non contaminare l'altro, ci sono persone che hanno cambiato non solo il comportamento, ma proprio il carattere da un giorno all'altro. E prevedo che quando ci si potrà riabbracciare, riprendendo le nostre abitudini fisiche, noi saremo per sempre grati agli strumenti digitali.
Lo scontro tra tecnologici e tecnofobi si riequilibrerà. Eravamo convinti che l'intelligenza artificiale ci rubasse il lavoro, che avrebbero deciso tutto le macchine. E invece è arrivato un virus che si è dimostrato molto ma molto più pericoloso di un algoritmo. Tuttavia - conclude Morace - sarà proprio l'intelligenza artificiale che ci aiuterà a trovare la cura contro il Covid-19, ne sono convinto».