L’Esposizione Universale del 2015 (Expo) ha puntato tutto sulla rivoluzione bio. Ma la foodeconomy sta davvero facendo quel grande balzo in avanti che è stato promesso?
EXPO2015 ha promesso un grande balzo in avanti riguardo alla sostenibilità:
cibo migliore e meglio distribuito. Dato che l'offerta in termini di qualità del nostro Paese, come di altri, non è bassa, anzi, come si coniuga quel "meglio" che dovrebbe incarnare lo sforzo verso il sostenibile?
Sul piano globale il food ha anticipato tutti. Quando ancora l'onda della
sostenibilità non era ancora partita – quella che oggi tocca soprattutto l'ambiente – c'erano già Ong e associazioni di consumatori pronti a concentrarsi sull'alimentazione e a pressare governi e multinazionali per costringerli a mettere il tema in agenda.
Non erano certo obiettivi nuovi, ma coglievano la carica di un evento internazionale per attirare l'attenzione sul cibo in un
momento già
di grande protagonismo e partecipazione, in tv, sui social network e sui media in generale.
Passati cinque anni, come elencato e valutato dal
Food Sustainability Index 2019, l'impegno globale sul cibo è ancora concentrato su:
- lo spreco e la carenza;
- la sostenibilità agricola;
- le sfide della nutrizione.
E tutti gli
elementi che differenziano i Paesi in classifica nell'indice riguardano infatti le condizioni del sistema agricolo, l'accesso alle risorse di consumatori e operatori, i problemi legati al fabbisogno, le attività di implementazione e sviluppo sempre connesse ai livelli di reddito.
A che punto è la sostenibilità economica
Un insieme di condizioni che si caratterizzano per complessità e diversità paese per paese. Ma se l'Italia non è paragonabile ai paesi con problemi di scarsità e di redditi scarsissimi, dove gioca la sua partita? Tra tutte, la
sostenibilità economica ci indigna meno perché la vediamo passare nei tg una volta l'anno, giusto quando i pastori sardi protestano per i prezzi troppo bassi del latte che poi finirà per costituire l'elemento base per la produzione del pecorino. Una sostenibilità che ha a che fare con la capacità di un'azienda di rimanere in piedi ricavando alla fine dell'anno un giusto guadagno, considerando:
- i prezzi delle materie prime (il latte è spesso un problema);
- i costi ed il livello di retribuzione della forza lavoro;
- i prezzi di vendita.
Cosa manca al sistema food per essere integrato
Da questo punto di vista il paese non ha ancora risolto i suoi problemi. Migliaia di
agricoltori (i produttori) pensano ancora di poter affrontare i grandi acquirenti spuntando prezzi adeguati senza aggregarsi e far fronte comune per avere una voce più forte e per diventare efficienti applicando economie di scala ottimali. Da parte loro, i grandi
acquirenti (trasformatori) combattono una guerra quasi sempre orientata al prezzo da spuntare (naturalmente il più basso), che quasi sempre falsa la concorrenza, e quasi mai conduce a concetti di "qualità della filiera", ovvero la capacità di avere un rapporto sempre più integrato proprio con i fornitori. Purtroppo, l'idea di
aggregarsi e integrarsi in filiere verticali o orizzontali non è ancora diffusa da entrambe le parti, e il caporalato distribuisce equamente le colpe tra le imprese di trasformazione, che fanno finta di non sapere, e coltivatori, che scaricano la responsabilità su chi sta alla base della filiera stessa.
Quanto pesa la sostenibilità logistica
Un'altra sostenibilità, nascosta dietro ai nostri consumi, è quella della
distribuzione del cibo, che tocca:
- i cosiddetti
riders, addetti al food delivery;
- i trasporti industriali;
- le piattaforme distributive.
Ci sono i problemi di sostenibilità di chi consegna il
cibo in bicicletta come la copertura sanitaria e la bassa retribuzione oraria, quelli di una infrastruttura viaria ancora complicata, sconnessa e lenta, che si aggiunge alla tradizionale inefficienza delle piattaforme distributive, come i grandi mercati all'ingrosso (suona antico chiamarli così, in tempi di App…). Tutti i problemi di sostenibilità dei contesti della logistica e della distribuzione hanno in comune la
sfida continua, non ancora vinta e per alcuni non ancora ingaggiata, con il risparmio e la gestione efficiente delle risorse, che siano:
- materie prime (anche carburante);
- spazio (in città, in autostrada, nel campo o sullo scaffale);
- tempo (di consegna, di acquisto, di vita del prodotto, di smaltimento del rifiuto).
Oltre a questa versione hard, ce n'è una seconda altrettanto indispensabile, anzi, che costituisce un ingrediente fondamentale per la prima, e ancora meno considerata.
Quando la sostenibilità è invisibile
Quando leggiamo o ascoltiamo parlare di
garanzia c'è sempre dietro un pezzo di carta. Può trattarsi di una
certificazione ambientale che garantisce la conformità di un terreno da coltivare o di un capannone in cui impiantare una linea produttiva. Può trattarsi di una
fattura o una bolla che accompagna la frutta e la verdura che entra alle tre di notte nel magazzino di un grande mercato ortofrutticolo (pubblico o privato). Può essere la
busta paga di un ragazzo che raccoglie pomodori a Castelvolturno o di una lavorante che imbusta piatti pronti. Può ancor peggio trattarsi di un
certificato di qualità o dell'autorizzazione ad apporre un marchio su un prodotto (ad es. di formaggi e salumi) per garantirne il rispetto del disciplinare che riguarda ingredienti e processo di produzione. Questa
sostenibilità invisibile è spesso dimenticata, ed è fatta di burocrazia, carta, certificazioni, autorizzazioni. Ed è una delle battaglie più importanti per il nostro paese, insieme a quella che mira a portare efficienza ed equità nei processi produttivi e distributivi.